Saturday, June 12, 2010

Ddl intercettazioni - Il cavaliere impunito e la regola del silenzio (di Giorgio Bocca)

Giù la maschera. Quello che vuole, che pretende la maggioranza al potere è l'impunità totale, il silenzio sui suoi furti e malversazioni. Ai tempi di tangentopoli la maggioranza al potere si accontentava di far passare i suoi furti per legittima pubblica amministrazione.

Ricordate la tesi del craxiano Biffi Gentili? Se i politici sono chiamati ad amministrare grandi città, grandi problemi con competenze da tecnocrati perché non devono essere pagati come tali? E se non lo sono perché si vuole impedire che si autofinanzino? Oggi la maggioranza al potere non ha più bisogno di questi sofismi. Rivendica il diritto di rubare attraverso la politica come un normale, dovuto diritto di preda. Al tempo di tangentopoli i socialisti craxiani ma anche quelli di altri partiti avevano nascosto i furti per mezzo della politica nei conti "protetti" cioè segreti in Svizzera a Singapore a Hong Kong. E avendo messo il bottino al sicuro si erano tolti anche il gusto di prendere per i fondelli i loro concittadini con la tesi assurda che l'autofinanziamento dei partiti non era solo una necessità ma un dovere di chi si faceva carico di amministrare lo Stato e la democrazia.

Oggi nella Italia berlusconiana il furto attraverso la politica è scoperto, normale. Appena si può si ruba e viene il sospetto che sia avvenuta una mutazione antropologica, che la maggioranza al potere sia convinta che l'uso della politica per rubare sia non solo normale ma lodevole e che le istituzioni abbiano il dovere di proteggerlo. L'Italia un tempo paese dei misteri, delle società segrete, delle congiure massoniche sotto l'egida del cavaliere di Arcore sta diventando una democrazia autoritaria dichiarata e compatta a difesa dei suoi vizi e dei suoi furti. Perché opporsi al bavaglio che viene imposto all'informazione? Non aveva ragione Mussolini ad abolire la cronaca nera e a coprire gli scandali del regime? Esiste un modo più efficace di lavare i panni sporchi in gran segreto senza che le gazzette li mettano in piazza? L'imprenditore Anemone che si rifiuta di rispondere ai magistrati che indagano sui suoi affari non è la pecora nera, l'eccezione ma la norma della società berlusconiana del fare tutto ciò che comoda ai padroni, senza pagare dazio.

La conferma della mutazione antropologica viene dal fatto che i politici presi con la mano nella marmellata mostrano più stupore che vergogna. La loro corruzione era normalissima, candida, da buon padre ladro di famiglia. A uno era bastato pagare una garconnière al centro di Roma, un altro aveva lasciato mano libera agli impresari edili dopo il terremoto in cambio di una revisione in casa sua dei servizi igienici, diciamo del funzionamento del cesso e del bagno. Ad altri ancora la possibilità di avere a spese dello Stato qualche mignotta, insomma la grande crisi della politica italiana, il grande rischio di una democrazia autoritaria, di una dittatura mascherata, morbida starebbe nella banalità del male, nei piccoli vizi nelle piccole tentazioni della cosiddetta classe dirigente.

Un'Italia senza misteri con un capo del governo schietto, schiettissimo. Che vuole? Che pretende? Il minimo di un uomo del fare più che del pensare: di non avere controlli, di non avere intralci e se gli viene in testa di allevare un cavallo nessuno si permetta di obbligarlo a tirar su una mucca. Che cosa ha scoperto il Cavaliere? Quello che avevano scoperto prima di lui tutti gli uomini autoritari del fare, che i controlli sono fastidiosi e a volte insopportabili. In una parola: che la democrazia è più complicata e faticosa della dittatura. (La Repubblica - 12 giugno 2010)

Ddl intercettazioni - Ecco perché bisogna fermarla (di Roberto Saviano)

La Legge bavaglio non è una legge che difende la privacy del cittadino, al contrario, è una legge che difende la privacy del potere. Non intesa come privacy degli uomini di potere, ma dei loro affari, anzi malaffari. Quando si discute di intercettazioni bisogna sempre affidarsi ad una premessa naturale quanto necessaria. La privacy è sacra, è uno dei pilastri del diritto e della convivenza civile.

Ma qui non siamo di fronte a una legge che difende la riservatezza delle persone, i loro dialoghi, il loro intimo comunicare. Questa legge risponde al meccanismo mediatico che conosce come funziona l'informazione e soprattutto l'informazione in Italia. Pubblicare le intercettazioni soltanto quando c'è il rinvio a giudizio genera un enorme vuoto che riguarda proprio quel segmento di informazioni che non può essere reso di dominio pubblico. Questo sembra essere il vero obiettivo: impedire alla stampa, nell'immediato, di usare quei dati che poi, a distanza di tempo, non avrebbe più senso pubblicare. In questo modo le informazioni veicolate rimarranno sempre monche, smozzicate, incomprensibili. L'obiettivo è impedire il racconto di ciò che accade, mascherando questo con l'interesse di tutelare la privacy dei cittadini.

Chiunque ha una esperienza anche minima nei meccanismi di intercettazione nel mondo della criminalità organizzata sa che vengono registrati centinaia di dettagli, storie di tradimenti, inutili al fine dell'inchiesta e nulle per la pubblicazione. Il terrore che ha il potere politico e imprenditoriale è quello di vedere pubblicati invece elementi che in poche battute permettono di dimostrare come si costruisce il meccanismo del potere. Non solo come si configura un reato. Per esempio l'inchiesta del dicembre 2007 che portò alla famosa intercettazione di Berlusconi con Saccà ha visto una quantità infinita di intercettazioni di dettagli privati, di cui in molti erano a conoscenza ma nessuna di queste è stata pubblicata oltre quelle necessarie per definire il contesto di uno scambio di favori tra politica e Rai.

La stessa maggioranza che approva un decreto che tronca la libertà di informazione in nome della difesa della privacy decide attraverso la Vigilanza Rai di pubblicare nei titoli di coda il compenso degli ospiti e dei conduttori. Sembra un gesto cristallino. E' il contrario. E non solo perché in una economia di mercato il compenso è determinato dal mercato e non da un calcolo etico. In questo modo i concorrenti della Rai sapranno quanto la Rai paga, quindi il meccanismo avvantaggerà le tv non di Stato. Mediaset potrà conoscere i compensi e regolarsi di conseguenza. Ma la straordinaria notizia che viene a controbilanciare quella assai tragica dell'approvazione della legge sulle intercettazioni è che il lettore, lo spettatore, quando comprende cosa sta accadendo diviene cittadino, ossia pretende di essere informato. Migliaia di persone sono indignate e impegnate a mostrare il loro dissenso, la volontà e la speranza di poter impedire che questa legge mutili per sempre il rapporto che c'è tra i giornali e i suoi lettori: la voglia di capire, conoscere, farsi un'opinione. Non vogliamo essere privati di ciò. Mandare messaggi ai giornali, mostrarsi imbavagliati, non sono gesti facili, scontati. Non sono gesti che permettono di sentirsi impegnati. Sono la premessa dell'impegno. L'intento d'azione è spesso l'azione stessa. Il dichiararsi non solo contrari in nome della possibilità di critica ma preoccupati che quello che sta accadendo distrugga uno strumento fondamentale per conoscere i fatti. La legge che imbavaglia, viene contrastata da migliaia di voci. Voci che dimostrano che non tutto è concluso, non tutto è determinabile dal palinsesto che viene dato agli italiani quotidianamente. Ogni persona che in questo momento prende parte a questa battaglia civile, sta permettendo di salvare il racconto del paese, di dare possibilità al giornalismo - e non agli sciacalli del ricatto - di resistere. In una parola sta difendendo la democrazia. (La Repubblica - Roberto Saviano/ Agenzia Santachiara -12 giugno 2010)

Sunday, June 6, 2010

Camilleri: "Rischio fascismo siamo pronti a disubbidire" (di Alberto D'Argenio)

Scrittori antibavaglio. Laterza: "Impossibile fare libri di inchiesta"

ROMA - Così torniamo al fascismo. I protagonisti del reading contro la legge-bavaglio sulle intercettazioni non hanno dubbi: uccide la coscienza dell'opinione pubblica e con essa la democrazia. Partite ieri in uno stracolmo teatro Quirino di Roma, le "Letture per la libertà di stampa" organizzate da un centinaio di editori insieme a librai e scrittori andranno avanti tutta la settimana in tutta Italia. "La legge sulle intercettazioni non tocca solo giornali e giornalisti, ma anche le Case editrici che pubblicano libri d'inchiesta, anch'essi potenziali destinatari del ddl", ha detto l'editore Giuseppe Laterza, tra gli organizzatori insieme a Marco Cassini (Minimum Fax) e Stefano Mauri (Mauri-Spagnol).

Ad aprire le letture dei brani è stato Andrea Camilleri, che ha proposto l'appello agli studenti che il rettore dell'università di Padova, Concetto Marchesi, pronunciò il primo dicembre 1943 lasciando l'ateneo per non sottomettersi al fascismo. Un discorso (vibrante la lettura dello scrittore siciliano) che si chiude così: "Liberate l'Italia dalla schiavitù dell'inganno". Passaggio che per Camilleri definisce perfettamente "lo sporco e il luridume dell'attacco alla libertà che oggi si ripropone sotto altre forme". Difendiamo l'informazione - ha proseguito il padre di Montalbano - anche se con la legge-bavaglio non ci sarà proprio più nulla di cui scrivere perché i magistrati non potranno più lavorare "lasciando i mafiosi e la cricca liberi di fregarci nel silenzio". Quindi Camilleri si è congedato dal pubblico con un laconico "buona fortuna". E di grande attualità anche il discorso di Pericle agli Ateniesi, che Paolo Rossi non riuscì a leggere in tv e ieri proposto da Rosetta Loy.

Sul palco anche Stefano Rodotà, secondo il quale "quando si blocca la conoscenza dei fatti si impedisce di deliberare e mettendo a repentaglio la vita democratica: è proprio dei regimi totalitari obbligare i propri cittadini a leggere su siti stranieri le notizie del proprio Paese". Quindi è intervenuto il politologo Giovanni Sartori, che ha definito "vergognosa" la legge-bavaglio: "È l'ultima risorsa per creare una falsa, disinformata e stupida opinione pubblica che non sa nulla del mondo e sa quasi solo cose false dell'Italia". E Marco Travaglio è stato tra coloro che hanno evocato l'inosservanza della legge. Come Massimo Carlotto, per il quale "non resta che la disobbedienza civile". Chi non c'era, come Dacia Maraini, ha affidato ad altri le proprie riflessioni. La serata è stata chiusa da Gianrico Carofiglio, magistrato, scrittore e senatore del Pd: "Il bavaglio che citava Camilleri era lo stesso programma della loggia P2. Non a caso vi erano iscritti anche esponenti del governo".  (La Repubblica, 1 giugno 2010)

Wednesday, June 2, 2010

Saviano: ma io disobbedirò (di Gianluca Di Feo)

Intervista di Gianluca Di Feo a Roberto Saviano sulla nuova Legge sulle intercettazioni all'esame del Parlamento.

Io disobbedirò. Roberto Saviano non ha dubbi: "Cercherò di continuare a lavorare come se questa legge non ci fosse". Perché il testo sulle intercettazioni approvato in commissione Giustizia "è una castrazione reale del lavoro di inchiesta" e soprattutto un regalo alle mafie "che potranno comunicare con facilità e nascondere i meccanismi del loro potere".

A quattro anni dall'uscita di "Gomorra", lo scrittore non vede diminuire la forza della criminalità organizzata mentre sente "crescere la fragilità della magistratura". E percepisce un clima molto simile a quello che ha preceduto le stragi del 1992, quegli attentati spettacolari contro obiettivi simbolici, uomini e monumenti, che hanno cambiato la storia d'Italia: "Anche oggi se i boss decidessero di alzare il tiro potrebbero dare una spallata al Paese e scegliere come ridisegnarlo. Penso alle parole di Francesco "Sandokan" Schiavone che ha evocato "una valanga"". In un terrazzo romano Saviano si gode la luce del tramonto spuntata dopo l'ennesimo temporale di questa primavera buia, gli occhi scuri vagano curiosi inseguendo qualunque movimento ma è tutt'altro che distratto: cerca sempre di guardare oltre e interpretare l'evoluzione della crisi morale ed economica. Sul tavolo i pupazzi playmobil che gli ha regalato un piccolo fan: un bandito armato fino ai denti e un poliziotto con solo il manganello, quasi una metafora della situazione italiana.

Se il testo della legge sulle intercettazioni non verrà modificato, le mafie saranno più avvantaggiate dai limiti agli ascolti o dal divieto di pubblicazione?

"Il vantaggio maggiore sarà la facilità di comunicazione. Oggi, con gran parte dei capi detenuti, per loro è sempre più difficile trasmettere ordini e quindi gestire le organizzazioni. Prendiamo i colloqui in carcere con i familiari, il sistema più antico usato per continuare a comandare. Il boss Bidognetti negli incontri con la compagna Anna Carrino si toccava continuamente il viso come se si stesse lisciando la barba. Voleva dirle: "Fai riferimento a Sandokan". Quando la donna ha cominciato a collaborare, ha spiegato ai magistrati che c'è voluta una decina di colloqui per comprendere quale fosse il significato di quel gesto. Se passa la legge, non avranno più di questi problemi".

Allo stesso modo le mafie sanno comunicare anche nel silenzio, con i segnali ostentati sul territorio.

"E questo rende ancora più importanti le intercettazioni. La cosa che più mi ha impressionato è che a volte ci sono esecuzioni che non hanno bisogno di un ordine: avvengono come se fosse una regola che sta nelle cose. Ricordo l'omicidio del sindacalista Federico Del Prete nel 2002 a Casal di Principe: non ci fu bisogno di una riunione tra capi ma solo un tacito assenso; nel momento in cui la dirigenza fece sapere che era mal sopportato chi lo andò ad ammazzare non è che si prese la briga di chiedere l'autorizzazione a Sandokan e a Bidognetti. E diventa fondamentale contare sull'ascolto con intercettazioni e microspie: ti permette di capire il contesto da cui poi certe azioni scattano in automatico".

Queste dinamiche sono descritte in "Gomorra" e in tanti altri libri. Come fanno i parlamentari di una commissione che si occupa di giustizia a ignorarle? Fino a che punto c'è malafede nel concedere un vantaggio simile ai padrini?

"C'è un segmento dove incompetenza e malafede possono coincidere. L'incompetenza c'è: vogliono creare una regola per ottenere certi vantaggi ignorando gli effetti nella lotta alla mafia. Ma non è una malafede diretta ad aiutare le organizzazioni criminali. Anche perché si sta declinando il contrasto ai clan come "manu militari": conta solo sbatterli dentro e sequestrare i beni più vistosi. Questa azione è importante: ma così si tagliano le braccia, senza colpire la testa e senza sradicare il corpo. E proprio l'alibi del contrasto militare permette a malafede e incompetenza di sovrapporsi".

Quindi pur di tutelare politici e altri colletti bianchi, garantendone la privacy a tutti i costi, si concede un assist alle mafie?

"Ma la questione della privacy non va sottovalutata. Io sono convinto che sul tema delle intercettazioni le cose oggi non vadano bene: sento che c'è la necessità di trovare delle regole nuove, che però non possono essere imposte dall'alto e uso ancora una volta l'espressione manu militari. Una democrazia ha bisogno di regole condivise: magistrati, giornalisti, avvocati e legislatori dovrebbero sedersi intorno a un tavolo ed elaborare proposte efficaci. Perché anche quando si evoca la protezione della vita privata bisogna fare dei distinguo: una cosa sono i commenti veramente personali, altra è la telefonata del costruttore che nella notte del terremoto abruzzese dice "sto ridendo". Quella deve entrare negli atti e deve essere divulgata: mostra il contesto da cui nasce il crimine. Questo per dire che il confine della privacy è labile e sta soprattutto nel buonsenso, cosa che spesso molte redazioni dei giornali non sembrano avere. E questo crea diffidenza nel lettore".

Se la legge dovesse venire approvata, in molte redazioni si comincia a invocare la disobbedienza civile. Lei cosa ne pensa?

"Non so consigliare però io so quello che farò. Io disobbedirò, cercherò di continuare a lavorare come se questa legge non ci fosse, dispiacendomi per l'occasione persa di creare nuove regole condivise. Perché la lezione del giornalismo americano insegna che è la capacità di darsi delle regole, evitando i facili colpi del gossip e le scorciatoie delle foto ad effetto, che rende forti le inchieste. Credo però che la legge come sta venendo formulata sia una castrazione reale del lavoro di inchiesta: disobbedire sarà la mia risposta. E spero che questa mia disobbedienza sia sostenuta dagli inquirenti, dalle forze di polizia, da tutti questi organi con cui convivo da quattro anni: spero che questa mia "famiglia allargata" possa aiutarmi a disobbedire".

Giornalisti e scrittori possono disobbedire e sfidare l'arresto. Ma la legge introduce multe pesantissime per gli editori, creando un deterrente alla pubblicazione. In queste condizioni il Web può diventare un'isola di libertà?

"Il Web è libertà. Io su Facebook ho una vita nuova: la mia pagina ha più di mezzo milione di sostenitori, quello che scrivo lì arriva a più lettori che un quotidiano nazionale. La Rete è potente come strumento per diffondere una verità ma manca di autorevolezza. Il Web è strumento di comunicazione mentre i giornali sono strumento di democrazia: creano dibattito, hanno una redazione, contano sulla fedeltà del lettore. Tra 50 anni lo sarà anche il Web ma oggi non è strumento maturo. Per questo imbavagliare tg e quotidiani significa imbavagliare le fonti più autorevoli".

Lei ormai è una personalità, un vip: sente il peso delle attenzioni sulla sua vita privata?

"Io ci sono abituato: ho sette persone della scorta che osservano quello che faccio 24 ore al giorno. Ma per motivi di sicurezza devo tenere nascosta la vita della mia famiglia. In questo senso capisco quando si invoca il diritto alla privacy perché con me coincide con il diritto alla vita".

Nel mercato delle notizie oggi vale di più parlare bene o parlare male di Saviano?

"Quando si satura il mercato del parlare bene conviene parlare male, ma non di Saviano, di chiunque. Non voglio avventurarmi in paragoni di cui mi sento inferiore, da Diego Armando Maradona, mito della mia gioventù, e persino a Barack Obama: quando se ne è parlato troppo in positivo, conviene cambiare ed attaccarlo. Fa parte del gioco, ma nella mia situazione quello che mi dispiace è che io non sono un uomo politico, io non rappresento i miei elettori. Io sono uno scrittore e mi sento rappresentante della mia parola e basta".

Ma quando nello scorso autunno lei è salito sul palco di piazza del Popolo in difesa della libertà di stampa, ha assunto una posizione politica.

"Sì, ma nel senso platonico del termine: la politica come arte pubblica, non come purtroppo la considerano gli italiani ossia la spartizione della torta. Non sono salito sul palco con la bandiera di un partito e ho sempre chiesto la condivisione delle mie posizioni anche all'elettorato di centrodestra. Il presidente Gianfranco Fini quando mi ha difeso dalle contestazioni di Emilio Fede ha detto che lo faceva in nome dei molti miei lettori del Pdl".

Quindi lei intende avere una posizione "politica" solo su alcuni temi?

"Sì, in questo senso io faccio politica, nel senso della battaglia delle idee. Mi sento fortunato e privilegiato: ho uno spazio autonomo per farlo. In genere chi cerca la battaglia delle idee deve scontare il dazio se non la gogna della militanza in un partito, il che comporta doversi scontrare con minuzie amministrative, liste e grane organizzative. Mi viene in mente un passo dei "Promessi sposi" in cui padre Cristoforo deve affrontare problemi di peste e guai quotidiani mentre Carlo Borromeo può ragionare sul bene e sul male. In questo momento la battaglia delle idee è lo spazio in cui mi sento libero".

Si sente più libero senza un "partito di Saviano" ma si sente anche più forte? Dopo piazza del Popolo non si sono ridotti gli spazi per comunicare le sue idee?

"Si sono ridotti perché sono diventato antipatico a certe parti politiche. Però continuo a parlare al loro elettorato e sono convinto che questo è l'elemento che più li infastidisce. Mi ricordo quando sono andato all'Università Roma Tre: fuori c'erano manifesti neri con la scritta bianca "Saviano eroe" e la "O" trasformata in croce celtica, sia manifesti rossi con su scritto "Saviano amico mio". Fu veramente divertente: perché non ero io ad avere permesso questa unione. Sembra retorico ma a volte la verità è retorica: è stata la legalità, l'idea che almeno su una cosa - il contrasto alle mafie - si possa non essere divisi".

Condivide le parole di Elio Germano che dal palco di Cannes ha dedicato il premio all'Italia "nonostante la sua classe dirigente"?

"Una dedica assolutamente giusta. È importante fare riferimento a quella parte del Paese che ha voglia di fare e di fare bene. Ed è giusto sottolineare che i limiti sono di tutta la classe dirigente: politici, ma anche imprenditori e uomini di cultura".

A quattro anni esatti dalla pubblicazione di "Gomorra", le mafie sono più o meno potenti?

"Ci sono stati assottigliamenti dei comparti militari delle associazioni criminali; sul piano economico non c'è stato grande contrasto perché non c'è stato un contrasto europeo. No, non mi sento di dire che oggi siano meno forti".

E la magistratura è più o meno forte?

"Ho la sensazione da studioso che la magistratura sia più debole perché le campagne mediatiche contro giudici e pm gli abbiano fatto perdere autorevolezza: il clima nei loro confronti non è dei migliori. E d'altro canto le battaglie interne tra correnti della magistratura fanno perdere il timone: intere procure spaccate per questi motivi non lavorano bene. La fragilità della magistratura la sento tantissimo: rispetto a quando ho scritto "Gomorra" avverto una crisi di operatività e di tranquillità".

L'Italia è la patria dei corsi e ricorsi storici. Quale fase del nostro passato le ricorda la crisi che stiamo vivendo?

"Ci sono due momenti storici che mi aiutano nel tentativo di capire il presente. Il primo lo percepisco su piano epidermico, non l'ho vissuto in prima persona. È quello che ha preceduto le stragi del 1992. Quando parlo con magistrati e investigatori sento la stessa paura, il timore che i boss possano dare una spallata al Paese, alzando il tiro e determinando le condizioni per il futuro prossimo. Penso a quelle frasi scritte in carcere da Francesco "Sandokan" Schiavone che metteva in guardia i familiari da una "valanga": come a dire in questo momento di crisi, qualunque cosa noi facciamo le conseguenze sarebbero enormi e siamo noi a fermarle e a ridisegnare così il destino".

E il secondo riferimento?

"Il clima postunitario di 150 anni fa. Il ministro degli Interni Giovanni Nicotera da ex garibaldino si poneva il problema del Sud: il Sud era occupato non unificato. Io oggi sento tantissimo la voglia di una parte di Europa, ancora prima che della Lega, di liberarsi del Sud d'Italia e vedo una classe dirigente meridionale, tranne poche eccezioni, disorientata se non corrotta. Il Sud sembra diviso tra conniventi e rassegnati, chi ci sta dentro e chi è onesto ma ha perso la speranza". (La Repubblica, 27 maggio 2010)

Saturday, May 29, 2010

Noi contro la legge (di Umberto Eco)

È nota la definizione della democrazia come sistema pieno di difetti ma di cui non si è ancora trovato nulla di meglio. Da questa ragionevole assunzione discende, per la maggior parte della gente, la convinzione errata che la democrazia (il migliore o il meno peggio dei sistemi di governo) sia quello per cui la maggioranza ha sempre ragione. Nulla di più falso. La democrazia è il sistema per cui, visto che è difficile definire in termini qualitativi chi abbia più ragione degli altri, si ricorre a un sistema bassamente quantitativo, ma oggettivamente controllabile: in democrazia governa chi prende più consensi. E se qualcuno ritiene che la maggioranza abbia torto, peggio per lui: se ha accettato i principi democratici deve accettare che governi una maggioranza che si sbaglia.

Una delle funzioni delle opposizioni è quella di dimostrare alla maggioranza che si era sbagliata. E se non ce la fa? Allora abbiamo, oltre a una cattiva maggioranza, anche una cattiva opposizione. Quante volte la maggioranza può sbagliarsi? Per millenni la maggioranza degli uomini ha creduto che il sole girasse intorno alla terra (e, considerando le vaste aree poco alfabetizzate del mondo, e il fatto che sondaggi fatti nei paesi più avanzati hanno dimostrato che moltissimi occidentali ancora credono che il sole giri) ecco un bel caso in cui la maggioranza non solo si è sbagliata ma si sbaglia ancora. Le maggioranze si sono sbagliate a ritenere Beethoven inascoltabile o Picasso inguardabile, la maggioranza a Gerusalemme si è sbagliata a preferire Barabba a Gesù, la maggioranza degli americani sbaglia a credere che due uova con pancetta tutte le mattine e una bella bistecca a pasto siano garanzie di buona salute, la maggioranza si sbagliava a preferire gli orsi a Terenzio e (forse) si sbaglia ancora a preferire "La pupa e il secchione" a Sofocle. Per secoli la maggioranza della gente ha ritenuto che esistessero le streghe e che fosse giusto bruciarle, nel Seicento la maggioranza dei milanesi credeva che la peste fosse provocata dagli untori, l'enorme maggioranza degli occidentali, compreso Voltaire, riteneva legittima e naturale la schiavitù, la maggioranza degli europei credeva che fosse nobile e sacrosanto colonizzare l'Africa.

In politica Hitler non è andato al potere per un colpo di Stato ma è stato eletto dalla maggioranza, Mussolini ha instaurato la dittatura dopo l'assassinio di Matteotti ma prima godeva di una maggioranza parlamentare, anche se disprezzava quell'aula «sorda e grigia». Sarebbe ingiusto giocare di paradossi e dire dunque che la maggioranza è quella che sbaglia sempre, ma è certo che non sempre ha ragione. In politica l'appello alla volontà popolare ha soltanto valore legale ("Ho diritto a governare perché ho ricevuto più voti") ma non permette che da questo dato quantitativo si traggano conseguenze teoriche ed etiche ("Ho la maggioranza dei consensi e dunque sono il migliore").

In certe aree della Sicilia e della Campania i mafiosi e i camorristi hanno la maggioranza dei consensi ma sarebbe difficile concluderne che siano pertanto i migliori rappresentati di quelle nobilissime popolazioni. Recentemente leggevo un giornalista governativo (ma non era il solo ad usare quell'argomento) che, nell'ironizzare sul caso Santoro (bersaglio ormai felicemente bipartisan), diceva che costui aveva la curiosa persuasione che la maggioranza degli italiani si fosse piegata di buon grado a essere sodomizzata da Berlusconi. Ora non credo che Berlusconi abbia mai sodomizzato qualcuno, ma è certo che una consistente quantità di italiani consente con lui senza accorgersi che il loro beniamino sta lentamente erodendo le loro libertà. Erodere le libertà di un paese significa di solito mettere in atto un colpo di Stato e instaurare violentemente una dittatura. Se questo avviene, gli elettori se ne accorgono e, se pure non hanno la forza di zione di colpo di Stato che è con lui cambiata. Al colpo di Stato si è sostituito lo struscio di Stato. All'idea di una trasformazione delle strutture dello Stato attraverso l'azione violenta il genio di Berlusconi è stato ed è quello di attuarle con estrema lentezza, passettino per passettino, in modo estremamente lubrificato.

Pensate alla inutile violenza con cui il fascismo, per fare tacere la voce scomoda di Matteotti, ha dovuto farlo ammazzare. Cose da medioevo. Non sarebbe bastato pagargli una buona uscita megagalattica (e tra l'altro non con i soldi del governo ma con quelli dei cittadini che pagano il canone)? Mussolini era davvero uomo rozzissimo. Quando una trasformazione delle istituzioni del Paese avviene passo per passo, e cioè per dosi omeopatiche, è difficile dire che ciascuna, presa di per sé, prefiguri una dittatura - e infatti quando qualche cassandra lo fa viene sbertucciata. Il fatto è che per un nuovo populismo mediatico la stessa dittatura è un sistema antiquato che non serve a nulla. Si possono modificare le strutture dello Stato a proprio piacere e secondo il proprio interesse senza instaurare alcuna dittatura.

Si può dire che il lodo Alfano prefiguri una tirannia? Sciocchezze. E calmierare le intercettazioni attenta davvero alla libertà d'informazione? Ma suvvia, se qualcuno ha delitto lo sapranno tutti a giudizio avvenuto, e l'evitare di parlare in anticipo di delitti solo presunti rispetta se mai la privatezza di ciascuno di noi. Vi piacerebbe che andasse sui giornali la vostra conversazione con l'amante, così che lo venisse a sapere la vostra signora? No, certo. E se il prezzo da pagare è che non venga intercettata la conversazione di un potente corrotto o di un mafioso in servizio permanente effettivo, ebbene, la nostra privatezza avrà bene un prezzo. Vi pare nazifascismo ridurre i fondi per la scuola pubblica? Ma dobbiamo risparmiare tutti, e bisogna pur dare l'esempio a cominciare dalle spese collettive. E se questo consegna il paese alle scuole private? Non sarà la fine del mondo, ce ne sono delle buonissime. È stalinismo rendere inguardabili i telegiornali delle reti pubbliche? No, se mai le vecchie dittature facevano di tutto per rendere la radio affettuosissima. Ma se questo va a favore delle reti private? Beh, vi risulta che Stalin abbia mai favorito le televisioni private?

Ecco, la funzione dei colpi di Stato striscianti è che le modificazioni costituzionali non vengono quasi percepite, o sono avvertite come irrilevanti. E quando la loro somma avrà prodotto non la seconda ma la terza Repubblica, sarà troppo tardi. Non perché non si potrebbe tornare indietro, ma perché la maggioranza avrà assorbito i cambiamenti come naturali e si sarà, per così dire, mitridatizzata. Un nuovo Malaparte potrebbe scrivere un trattato superbo su questa nuova tecnica dello struscio di Stato. Anche perché di fronte a essa ogni protesta e ogni denuncia perde valore provocatorio e sembra che chi si lamenta dia corpo alle ombre.

Pessimismo globale, dunque? No, fiducia nell'azione benigna del tempo e della sua erosione continua. Una trasformazione delle istituzioni che procede a piccoli passi può non avere tempo per compiersi del tutto, a metà strada possono avvenire smandrappamenti, stanchezze, cadute di tensione, incidenti di percorso. È un poco come la barzelletta sulla differenza tra inferno tedesco e inferno italiano. In entrambi bagno nella benzina bollente al mattino, sedia elettrica a mezzogiorno, squartamento a sera. Salvo che nell'inferno italiano un giorno la benzina non arriva, un altro la centrale elettrica è in sciopero, un altro ancora il boia si è dato malato… Tagliare la testa al re o occupare il Palazzo d'Inverno è cosa che si fa in cinque minuti. Avvelenare qualcuno con piccole dosi d'arsenico nella minestra prende molto tempo, e nel frattempo chissà, vedrà chi vivrà. Per il momento, resistere, resistere, resistere. (L’Espresso, 27 maggio 2010)

Saturday, April 17, 2010

"Il Premier mi vuole zittire, ma sui clan non tacerò mai" (di Roberto Saviano)

Lo scrittore: "Assurdo preferire il silenzio, Berlusconi si scusi con le vittime".

Presidente Silvio Berlusconi, le scrivo dopo che in una conferenza stampa tenuta da lei a Palazzo Chigi sono stato accusato, anzi il mio libro è stato accusato di essere responsabile di "supporto promozionale alle cosche". Non sono accuse nuove. Mi vengono rivolte da anni: si fermi un momento a pensare a cosa le sue parole significano. A quanti cronisti, operatori sociali, a quanti avvocati, giudici, magistrati, a quanti narratori, registi, ma anche a quanti cittadini che da anni, in certe parti d'Italia, trovano la forza di raccontare, di esporsi, di opporsi, pensi a quanti hanno rischiato e stanno tutt'ora rischiando, eppure vengono accusati di essere fiancheggiatori delle organizzazioni criminali per il solo volerne parlare. Perché per lei è meglio non dire. E' meglio la narrativa del silenzio. Del visto e taciuto. Del lasciar fare alle polizie ai tribunali come se le mafie fossero cosa loro. Affari loro. E le mafie vogliono esattamente che i loro affari siano cosa loro, Cosa nostra appunto è un'espressione ancor prima di divenire il nome di un'organizzazione.
Io credo che solo e unicamente la verità serva a dare dignità a un Paese. Il potere mafioso è determinato da chi racconta il crimine o da chi commette il crimine?
Il ruolo della 'ndrangheta, della camorra, di Cosa nostra è determinato dal suo volume d'affari - cento miliardi di euro all'anno di profitto - un volume d'affari che supera di gran lunga le più granitiche aziende italiane. Questo può non esser detto? Lei stesso ha presentato un dato che parla del sequestro alle mafie per un valore pari a dieci miliardi di euro. Questo significa che sono gli scrittori ad inventare? Ad esagerare? A commettere crimine con la loro parola? Perché? Michele Greco il boss di Cosa Nostra morto in carcere al processo contro di lui si difese dicendo che "era tutta colpa de Il Padrino" se in Sicilia venivano istruiti processi contro la mafia. Nicola Schiavone, il padre dei boss Francesco Schiavone e Walter Schiavone, dinanzi alle telecamere ha ribadito che la camorra era nella testa di chi scriveva di camorra, che il fenomeno era solo legato al crimine di strada e che io stesso ero il vero camorrista che scriveva di queste storie quando raccontava che la camorra era impresa, cemento, rifiuti, politica.

Per i clan che in questi anni si sono visti raccontare, la parola ha rappresentato sempre un affronto perché rendeva di tutti informazioni e comportamenti che volevano restassero di pochi. Perché quando la parola rende cittadinanza universale a quelli che prima erano considerati argomenti particolari, lontani, per pochi, è in quell'istante che sta chiamando un intervento di tutti, un impegno di molti, una decisione che non riguarda più solo addetti ai lavori e cronisti di nera. Le ricordo le parole di Paolo Borsellino in ricordo di Giovanni Falcone pronunciate poco prima che lui stesso fosse ammazzato. "La lotta alla mafia è il primo problema da risolvere ... non deve essere soltanto una distaccata opera di repressione ma un movimento culturale e morale che coinvolga tutti e specialmente le giovani generazioni le spinga a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale della indifferenza della contiguità e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone quando in un breve periodo di entusiasmo mi disse: la gente fa il tifo per noi. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l'appoggio morale dà al lavoro dei giudici, significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche smuovendo le coscienze".
Il silenzio è ciò che vogliono. Vogliono che tutto si riduca a un problema tra guardie e ladri. Ma non è così. E' mostrando, facendo vedere, che si ha la possibilità di avere un contrasto. Lo stesso Piano Caserta che il suo governo ha attuato è partito perché è stata accesa la luce sull'organizzazione dei casalesi prima nota solo agli addetti ai lavori e a chi subiva i suoi ricatti.

Eppure la sua non è un'accusa nuova. Anche molte personalità del centrosinistra campano, quando uscì il libro, dissero che avevo diffamato il rinascimento napoletano, che mi ero fatto pubblicità, che la mia era semplicemente un'insana voglia di apparire. Quando c'è un incendio si lascia fuggire chi ha appiccato le fiamme e si dà la colpa a chi ha dato l'allarme? Guardando a chi ha pagato con la vita la lotta per la verità, trovo assurdo e sconfortante pensare che il silenzio sia l'unica strada raccomandabile. Eppure, Presidente, avrebbe potuto dire molte cose per dimostrare l'impegno antimafia degli italiani. Avrebbe potuto raccontare che l'Italia è il paese con la migliore legislazione antimafia del mondo. Avrebbe potuto ricordare di come noi italiani offriamo il know-how dell'antimafia a mezzo mondo. Le organizzazioni criminali in questa fase di crisi generalizzata si stanno infiltrando nei sistemi finanziari ed economici dell'occidente e oggi gli esperti italiani vengono chiamati a dare informazioni per aiutare i governi a combattere le organizzazioni criminali di ogni genealogia. E' drammatico - e ne siamo consapevoli in molti - essere etichettati mafiosi ogni volta che un italiano supera i confini della sua terra. Certo che lo è. Ma non è con il silenzio che mostriamo di essere diversi e migliori.
Diffondendo il valore della responsabilità, del coraggio del dire, del valore della denuncia, della forza dell'accusa, possiamo cambiare le cose.

Accusare chi racconta il potere della criminalità organizzata di fare cattiva pubblicità al paese non è un modo per migliorare l'immagine italiana quanto piuttosto per isolare chi lo fa. Raccontare è il modo per innescare il cambiamento. Questa è l'unica strada per dimostrare che siamo il paese di Giovanni Falcone, di Don Peppe Diana, e non il paese di Totò Riina e di Schiavone Sandokan. Credo che nella battaglia antimafia non ci sia una destra o una sinistra con cui stare. Credo semplicemente che ci sia un movimento culturale e morale al quale aspirare. Io continuerò a parlare a tutti, qualunque sarà il credo politico, anche e soprattutto ai suoi elettori, Presidente: molti di loro, credo, saranno rimasti sbigottiti ed indignati dalle sue parole. Chiedo ai suoi elettori, chiedo agli elettori del Pdl di aiutarla a smentire le sue parole. E' l'unico modo per ridare la giusta direzione alla lotta alla mafia. Chiederei di porgere le sue scuse non a me - che ormai ci sono abituato - ma ai parenti delle vittime di tutti coloro che sono caduti raccontando. Io sono un autore che ha pubblicato i suoi libri per Mondadori e Einaudi, entrambe case editrici di proprietà della sua famiglia. Ho sempre pensato che la storia partita da molto lontano della Mondadori fosse pienamente in linea per accettare un tipo di narrazione come la mia, pensavo che avesse gli strumenti per convalidare anche posizioni forti, correnti di pensiero diverse. Dopo le sue parole non so se sarà più così. E non so se lo sarà per tutti gli autori che si sono occupati di mafie esponendo loro stessi e che Mondadori e Einaudi in questi anni hanno pubblicato. La cosa che farò sarà incontrare le persone nella casa editrice che in questi anni hanno lavorato con me, donne e uomini che hanno creduto nelle mie parole e sono riuscite a far arrivare le mie storie al grande pubblico. Persone che hanno spesso dovuto difendersi dall'accusa di essere editor, uffici stampa, dirigenti, "comprati". E che invece fino ad ora hanno svolto un grande lavoro. E' da loro che voglio risposte.

Una cosa è certa: io, come molti altri, continueremo a raccontare. Userò la parola come un modo per condividere, per aggiustare il mondo, per capire. Sono nato, caro Presidente, in una terra meravigliosa e purtroppo devastata, la cui bellezza però continua a darmi forza per sognare la possibilità di una Italia diversa. Una Italia che può cambiare solo se il sud può cambiare. Lo giuro Presidente, anche a nome degli italiani che considerano i propri morti tutti coloro che sono caduti combattendo le organizzazioni criminali, che non ci sarà giorno in cui taceremo. Questo lo prometto. A voce alta.  (©2010 Roberto Saviano /Agenzia Santachiara)

Friday, April 16, 2010

Benedetto XVI ha fallito, i cattolici perdono la fiducia (di Hans Küng)

Lettera del teologo Hans Küng ai Vescovi
Negli anni 1962-1965 Joseph Ratzinger - oggi Benedetto XVI - ed io eravamo i due più giovani teologi del Concilio. Oggi siamo i più anziani, e i soli ancora in piena attività. Ho sempre inteso il mio impegno teologico come un servizio alla Chiesa. Per questo, mosso da preoccupazione per la crisi di fiducia in cui versa questa nostra Chiesa, la più profonda che si ricordi dai tempi della Riforma ad oggi, mi rivolgo a voi, in occasione del quinto anniversario dell'elezione di papa Benedetto al soglio pontificio, con una lettera aperta. È questo infatti l'unico mezzo di cui dispongo per mettermi in contatto con voi. Avevo apprezzato molto a suo tempo l'invito di papa Benedetto, che malgrado la mia posizione critica nei suoi riguardi mi accordò, poco dopo l'inizio del suo pontificato, un colloquio di quattro ore, che si svolse in modo amichevole. Ne avevo tratto la speranza che Joseph Ratzinger, già mio collega all'università di Tübingen, avrebbe trovato comunque la via verso un ulteriore rinnovamento della Chiesa e un'intesa ecumenica, nello spirito del Concilio Vaticano II. Purtroppo le mie speranze, così come quelle di tante e tanti credenti che vivono con impegno la fede cattolica, non si sono avverate; ho avuto modo di farlo sapere più di una volta a papa Benedetto nella corrispondenza che ho avuto con lui. Indubbiamente egli non ha mai mancato di adempiere con scrupolo agli impegni quotidiani del papato, e inoltre ci ha fatto dono di tre giovevoli encicliche sulla fede, la speranza e l'amore. Ma a fronte della maggiore sfida del nostro tempo il suo pontificato si dimostra ogni giorno di più come un'ulteriore occasione perduta, per non aver saputo cogliere una serie di opportunità:

- È mancato il ravvicinamento alle Chiese evangeliche, non considerate neppure come Chiese nel senso proprio del termine: da qui l'impossiblità di un riconoscimento delle sue autorità e della celebrazione comune dell'Eucaristia.

- È mancata la continuità del dialogo con gli ebrei: il papa ha reintrodotto l'uso preconciliare della preghiera per l'illuminazione degli ebrei; ha accolto nella Chiesa alcuni vescovi notoriamente scismatici e antisemiti; sostiene la beatificazione di Pio XII; e prende in seria considerazione l'ebraismo solo in quanto radice storica del cristianesimo, e non già come comunità di fede che tuttora persegue il proprio cammino di salvezza. In tutto il mondo gli ebrei hanno espresso sdegno per le parole del Predicatore della Casa Pontificia, che in occasione della liturgia del venerdì santo ha paragonato le critiche rivolte al papa alle persecuzioni antisemite.

- Con i musulmani si è mancato di portare avanti un dialogo improntato alla fiducia. Sintomatico in questo senso è il discorso pronunciato dal papa a Ratisbona: mal consigliato, Benedetto XVI ha dato dell'islam un'immagine caricaturale, descrivendolo come una religione disumana e violenta e alimentando così la diffidenza tra i musulmani.

- È mancata la riconciliazione con i nativi dell'America Latina: in tutta serietà, il papa ha sostenuto che quei popoli colonizzati "anelassero" ad accogliere la religione dei conquistatori europei.

- Non si è colta l'opportunità di venire in aiuto alle popolazioni dell'Africa nella lotta contro la sovrappopolazione e l'AIDS, assecondando la contraccezione e l'uso del preservativo.

- Non si è colta l'opportunità di riconciliarsi con la scienza moderna, riconoscendo senza ambiguità la teoria dell'evoluzione e aderendo, seppure con le debite differenziazioni, alle nuove prospettive della ricerca, ad esempio sulle cellule staminali.

- Si è mancato di adottare infine, all'interno stesso del Vaticano, lo spirito del Concilio Vaticano II come bussola di orientamento della Chiesa cattolica, portando avanti le sue riforme.

Quest'ultimo punto, stimatissimi vescovi, riveste un'importanza cruciale. Questo papa non ha mai smesso di relativizzare i testi del Concilio, interpretandoli in senso regressivo e contrario allo spirito dei Padri conciliari, e giungendo addirittura a contrapporsi espressamente al Concilio ecumenico, il quale rappresenta, in base al diritto canonico, l'autorità suprema della Chiesa cattolica:

- ha accolto nella Chiesa cattolica, senza precondizione alcuna, i vescovi tradizionalisti della Fraternità di S. Pio X, ordinati illegalmente al di fuori della Chiesa cattolica, che hanno ricusato il Concilio su alcuni dei suoi punti essenziali;

- ha promosso con ogni mezzo la messa medievale tridentina, e occasionalmente celebra egli stesso l'Eucaristia in latino, volgendo le spalle ai fedeli;

- non realizza l'intesa con la Chiesa anglicana prevista nei documenti ecumenici ufficiali (ARCIC), ma cerca invece di attirare i preti anglicani sposati verso la Chiesa cattolica romana rinunciando all'obbligo del celibato.

- ha potenziato, a livello mondiale, le forze anticonciliari all'interno della Chiesa attraverso la nomina di alti responsabili anticonciliari (ad es.: Segreteria di Stato, Congregazione per la Liturgia) e di vescovi reazionari.

Papa Benedetto XVI sembra allontanarsi sempre più dalla grande maggioranza del popolo della Chiesa, il quale peraltro è già di per sé portato a disinteressarsi di quanto avviene a Roma, e nel migliore dei casi si identifica con la propria parrocchia o con il vescovo locale.
So bene che anche molti di voi soffrono di questa situazione: la politica anticonciliare del papa ha il pieno appoggio della Curia romana, che cerca di soffocare le critiche nell'episcopato e in seno alla Chiesa, e di screditare i dissenzienti con ogni mezzo. A Roma si cerca di accreditare, con rinnovate esibizioni di sfarzo barocco e manifestazioni di grande impatto mediatico, l'immagine di una Chiesa forte, con un "vicario di Cristo" assolutista, che riunisce nelle proprie mani i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Ma la politica di restaurazione di Benedetto XVI è fallita. Le sue pubbliche apparizioni, i suoi viaggi, i suoi documenti non sono serviti a influenzare nel senso della dottrina romana le idee della maggioranza dei cattolici su varie questioni controverse, e in particolare sulla morale sessuale. Neppure i suoi incontri con i giovani, in larga misura membri di gruppi carismatici di orientamento conservatore, hanno potuto frenare le defezioni dalla Chiesa, o incrementare le vocazioni al sacerdozio.
Nella vostra qualità di vescovi voi siete certo i primi a risentire dolorosamente dalla rinuncia di decine di migliaia di sacerdoti, che dall'epoca del Concilio ad oggi si sono dimessi dai loro incarichi soprattutto a causa della legge sul celibato. Il problema delle nuove leve non riguarda solo i preti ma anche gli ordini religiosi, le suore, i laici consacrati: il decremento è sia quantitativo che qualitativo. La rassegnazione e la frustrazione si diffondono tra il clero, e soprattutto tra i suoi esponenti più attivi; tanti si sentono abbandonati nel loro disagio, e soffrono a causa della Chiesa. In molte delle vostre diocesi è verosimilmente in aumento il numero delle chiese deserte, dei seminari e dei presbiteri vuoti. In molti Paesi, col preteso di una riforma ecclesiastica, si decide l'accorpamento di molte parrocchie, spesso contro la loro volontà, per costituire gigantesche "unità pastorali" affidate a un piccolo numero di preti oberati da un carico eccessivo di lavoro.
E da ultimo, ai tanti segnali della crisi in atto viene ad aggiungersi lo spaventoso scandalo degli abusi commessi da membri del clero su migliaia di bambini e adolescenti, negli Stati Uniti, in Irlanda, in Germania e altrove; e a tutto questo si accompagna una crisi di leadership, una crisi di fiducia senza precedenti. Non si può sottacere il fatto che il sistema mondiale di occultamento degli abusi sessuali del clero rispondesse alle disposizioni della Congregazione romana per la Dottrina della fede (guidata tra il 1981 e il 2005 dal cardinale Ratzinger), che fin dal pontificato di Giovanni Paolo II raccoglieva, nel più rigoroso segreto, la documentazione su questi casi. In data 18 maggio 2001 Joseph Ratzinger diramò a tutti i vescovi una lettera dai toni solenni sui delitti più gravi ("Epistula de delictis gravioribus"), imponendo nel caso di abusi il "secretum pontificium", la cui violazione è punita dalla la Chiesa con severe sanzioni. E' dunque a ragione che molti hanno chiesto un personale "mea culpa" al prefetto di allora, oggi papa Benedetto XVI. Il quale però non ha colto per farlo l'occasione della settimana santa, ma al contrario ha fatto attestare "urbi et orbi", la domenica di Pasqua, la sua innocenza al cardinale decano.
Per la Chiesa cattolica le conseguenze di tutti gli scandali emersi sono devastanti, come hanno confermato alcuni dei suoi maggiori esponenti. Il sospetto generalizzato colpisce ormai indiscriminatamente innumerevoli educatori e pastori di grande impegno e di condotta ineccepibile. Sta a voi, stimatissimi vescovi, chiedervi quale sarà il futuro delle vostre diocesi e quello della nostra Chiesa. Non è mia intenzione proporvi qui un programma di riforme. L'ho già fatto più d'una volta, sia prima che dopo il Concilio. Mi limiterò invece a sottoporvi qui sei proposte, condivise - ne sono convinto - da milioni di cattolici che non hanno voce.

1. Non tacete. Il silenzio a fronte di tanti gravissimi abusi vi rende corresponsabili. Al contrario, ogni qualvolta ritenete che determinate leggi, disposizioni o misure abbiano effetti controproducenti, dovreste dichiararlo pubblicamente. Non scrivete lettere a Roma per fare atto di sottomissione e devozione, ma per esigere riforme!

2. Ponete mano a iniziative riformatrici. Tanti, nella Chiesa e nell'episcopato, si lamentano di Roma, senza però mai prendere un'iniziativa. Ma se oggi in questa o quella diocesi o comunità i parrocchiani disertano la messa, se l'opera pastorale risulta inefficace, se manca l'apertura verso i problemi e i mali del mondo, se la cooperazione ecumenica si riduce a un minimo, non si possono scaricare tutte le colpe su Roma. Tutti, dal vescovo al prete o al laico, devono impegnarsi per il rinnovamento della Chiesa nel proprio ambiente di vita, piccolo o grande che sia. Molte cose straordinarie, nelle comunità e più in generale in seno alla Chiesa, sono nate dall'iniziativa di singole persone o di piccoli gruppi. Spetta a voi, nella vostra qualità di vescovi, il compito di promuovere e sostenere simili iniziative, così come quello di rispondere, soprattutto in questo momento, alle giustificate lagnanze dei fedeli.

3. Agire collegialmente. Il Concilio ha decretato, dopo un focoso dibattito e contro la tenace opposizione curiale, la collegialità dei papi e dei vescovi, in analogia alla storia degli apostoli: lo stesso Pietro non agiva al di fuori del collegio degli apostoli. Ma nel periodo post-conciliare il papa e la curia hanno ignorato questa fondamentale decisione conciliare. Fin da quando, a soli due anni dal Concilio e senza alcuna consultazione con l'episcopato, Paolo VI promulgò un'enciclica in difesa della discussa legge sul celibato, la politica e il magistero pontificio ripresero a funzionare secondo il vecchio stile non collegiale. Nella stessa liturgia il papa si presenta come un autocrate, davanti al quale i vescovi, dei quali volentieri si circonda, figurano come comparse senza diritti e senza voce. Perciò, stimatissimi vescovi, non dovreste agire solo individualmente, bensì in comune con altri vescovi, con i preti, con le donne e gli uomini che formano il popolo della Chiesa.

4. L'obbedienza assoluta si deve solo a Dio. Voi tutti, al momento della solenne consacrazione alla dignità episcopale, avete giurato obbedienza incondizionata al papa. Tuttavia sapete anche che l'obbedienza assoluta è dovuta non già al papa, ma soltanto a Dio. Perciò non dovete vedere in quel giuramento a un ostacolo tale da impedirvi di dire la verità sull'attuale crisi della Chiesa, della vostra diocesi e del vostro Paese. Seguite l'esempio dell'apostolo Paolo, che si oppose a Pietro "a viso aperto, perché evidentemente aveva torto" (Gal. 2,11). Può essere legittimo fare pressione sulle autorità romane, in uno spirito di fratellanza cristiana, laddove queste non aderiscano allo spirito del Vangelo e della loro missione. Numerosi traguardi - come l'uso delle lingue nazionali nella liturgia, le nuove disposizioni sui matrimoni misti, l'adesione alla tolleranza, alla democrazia, ai diritti umani, all'intesa ecumenica e molti altri ancora hanno potuto essere raggiunti soltanto grazie a una costante e tenace pressione dal basso.

5. Perseguire soluzioni regionali: il Vaticano si mostra spesso sordo alle giustificate richieste dei vescovi, dei preti e dei laici. Ragione di più per puntare con intelligenza a soluzioni regionali. Come ben sapete, un problema particolarmente delicato è costituito dalla legge sul celibato, una norma di origine medievale, la quale a ragione è ora messa in discussione a livello mondiale nel contesto dello scandalo suscitato dagli abusi. Un cambiamento in contrapposizione con Roma appare pressoché impossibile; ma non per questo si è condannati alla passività. Un prete che dopo seria riflessione abbia maturato l'intenzione di sposarsi non dovrebbe essere costretto a dimettersi automaticamente dal suo incarico, se potesse contare sul sostegno del suo vescovo e della sua comunità. Una singola Conferenza episcopale potrebbe aprire la strada procedendo a una soluzione regionale. Meglio sarebbe tuttavia mirare a una soluzione globale per la Chiesa nel suo insieme. Perciò

6. si chieda la convocazione di un Concilio: se per arrivare alla riforma liturgica, alla libertà religiosa, all'ecumenismo e al dialogo interreligioso c'è stato bisogno di un Concilio, lo stesso vale oggi a fronte dei problemi che si pongono in termini tanto drammatici. Un secolo prima della Riforma, il Concilio di Costanza aveva deciso la convocazione di un concilio ogni cinque anni: decisione che fu però disattesa dalla Curia romana, la quale anche oggi farà indubbiamente di tutto per evitare un concilio dal quale non può che temere una limitazione dei propri poteri. È responsabilità di tutti voi riuscire a far passare la proposta di un concilio, o quanto meno di un'assemblea episcopale rappresentativa.

Questo, a fronte di una Chiesa in crisi, è l'appello che rivolgo a voi, stimatissimi vescovi: vi invito a gettare sulla bilancia il peso della vostra autorità episcopale, rivalutata dal Concilio. Nella difficile situazione che stiamo vivendo, gli occhi del mondo sono rivolti a voi. Innumerevoli sono i cattolici che hanno perso la fiducia nella loro Chiesa; e il solo modo per contribuire a ripristinarla è quello di affrontare onestamente e apertamente i problemi, per adottare le riforme che ne conseguono. Chiedo a voi, nel più totale rispetto, di fare la vostra parte, ove possibile in collaborazione con altri vescovi, ma se necessario anche soli, con apostolica "franchezza" (At 4,29.31). Date un segno di speranza ai vostri fedeli, date una prospettiva alla nostra Chiesa. Vi saluto nella comunione della fede cristiana.

(Lettera di Hans Küng ai Vescovi - La Repubblica, 15 aprile 2010.  Hans Küng è un teologo svizzero  di fama internazionale, noto soprattutto per le sue posizioni in campo teologico e morale, spesso critiche verso la dottrina della Chiesa cattolica. Tra il 1962 e il 1965 ha partecipato al Concilio Vaticano II in qualità di esperto, nominato da Papa Giovanni XXIII)