Tuesday, October 27, 2009

Il buco della serratura (di Alessio Ponz de Leon)

Immaginate cosa deve provare la moglie di un noto ed importante personaggio pubblico nello scoprire che il proprio irreprensibile marito frequenta un giro di trans. Immaginate cosa deve provare un figlio nell'apprendere, attraverso i quotidiani e le televisioni, che il proprio padre, potente ed autorevole personaggio pubblico, è stato ricattato da due carabinieri che lo hanno colto in flagrante mentre aveva rapporti sessuali con un trans. Immaginate cosa devono provare la moglie e i figli di un carabiniere nell'apprendere che il rispettivo marito e padre gestisce un sordido giro di ricatti con la collaborazione - oltre che di altri carabinieri - di trans, prostitute e spacciatori di droga.

Avvocati, imprenditori, medici, professori universitari, politici, commercialisti, giornalisti, calciatori ed ex piloti di formula uno. E' lungo l'elenco delle categorie di frequentatori abituali di trans e prostitute diramato dalla Procura di Roma. L'ambiente in cui si consumano questi romantici incontri ? Leggiamo la descrizione della giornalista Maria Elena Vincenzi, che ha visitato i luoghi:"..una vita segreta che racconta tutta un'altra realtà, fatta di appartamenti angusti, loculi fatiscenti in cui la televisione col satellite parla portoghese. Odore di fritto, urla da una porta all'altra, lametta e schiuma da barba appoggiate sul lavandino accanto a un reggiseno, spesso enorme."

Meravigliarsi ? Di cosa ? Altri importanti uomini pubblici, sotto lo sguardo incredulo di mogli, figli, genitori, fratelli, amici e comuni cittadini - ma anche con il plauso e l'ammiccamento compiacente di molti altri cittadini - hanno ammesso di avere avuto rapporti sessuali con escort di lusso in ville al mare ed eleganti appartamenti nel centro storico. Meglio ancora se di proprietà dello Stato. Ma quegli italiani che non si scandalizzano più di tanto nell'apprendere queste notizie devono avere dimenticano che si tratta degli stessi uomini pubblici che hanno fatto approvare dal Parlamento leggi speciali contro la prostituzione.

Domanda. Ma da un punto di visto etico, che differenza c'è fra il consumare un rapporto sessuale con un trans, con una prostituta di strada o con una escort di lusso ? E allora perchè Marrazzo si è dimesso e altri non hanno avuto la decenza di farlo ?

Ma tutto ciò è visto con compiacente indulgenza da una buona parte dei nostri connazionali, soprattutto da quelli, sempre più numerosi, che amano tanto guardare le cose dal buco della serratura. Una prova ? Proprio oggi mi è capitato di leggere una ghiotta notizia : il Grande Fratello 10, nella prima puntata del 26 ottobre, ha ottenuto il 30,87% di share, con 6.047.000 spettatori. Ed ha raggiunto picchi di 8 milioni ! Ed io, nella mia sconfinata e disarmante ingenuità, continuo a domandarmi come possa una persona di normale intelligenza, di media cultura e di ragionevole buon gusto (non si pretende poi molto!) provare piacere o interesse a guardare dal buco della serratura quello che fa un gruppo di coatti, di infimo livello culturale ed intellettuale, dentro una casa finta, sotto l'occhio costante di una telecamera. Che Bel Paese dal radioso futuro è il nostro. (Alessio Ponz de Leon, per il suo Blog).

Sunday, October 25, 2009

Un mondo ingiusto (di Noam Chomsky)

La crisi finanziaria colpisce l'occidente, la fame si abbatte sul sud del pianeta. Ma il problema più grave riguarda la democrazia, ridotta a uno show per cittadini spettatori. E' ora di cambiare, scrive Noam Chomsky.

L'11 giugno la New York Reviews of Books ha pubblicato i pareri di alcuni esperti sul tema "Come affrontare la crisi". E' una lettura molto interessante, ma bisogna fare attenzione a quell'articolo determinativo. Per l'occidente "la crisi" è la crisi finanziaria che ha colpito i Paesi ricchi. E' una crisi molto importante, ma anche per i ricchi ed i privilegiati non è certo l'unica, e neanche la più grave. Altri vedono il mondo diversamente. Per esempio, il 26 ottobre 2008 il quotidiano bengalese The New Nation ha scritto: "E' molto significativo che siano stati spesi migliaia di miliardi di dollari per rimettere in sesto i principali istituti finanziari del mondo, mentre i 12,3 miliardi di dollari previsti dall'Onu all'inizio del 2009 per combattere la crisi alimentare ancora non si vedono. L'obiettivo di sradicare la povertà estrema entro la fine del 2015 è sempre meno realistico, non per carenza di risorse ma perchè non c'è un vero interesse per i poveri del mondo". L'articolo prosegue anticipando che la giornata mondiale dell'alimentazione, il 16 ottobre 2009, "porterà pessime notizie sulla situazione dei poveri nel mondo e nient'altro: semplici notizie che non provocheranno nessuna reazione".

I leader occidentali sembrano decisi a confermare questa previsione. L'11 giugno il Financial Times scriveva che "il programma alimentare delle Nazioni Unite sta tagliando le razioni e interrompendo alcuni interventi perchè i Paesi donatori, colpiti dalla crisi economica, hanno ridotto i finanziamenti". I tagli sono stati fatti nel modo peggiore: nel mondo le persone che soffrono la fame sono più di un miliardo (cento milioni si sono aggiunte negli ultimi sei mesi), i prezzi aumentano e le rimesse degli emigranti diminuiscono a causa della crisi in occidente.

Come aveva sospettato The New Nation, le pessime previsioni diffuse dall'Onu non hanno neanche raggiunto la dignità di notizie. Sul New York Times i tagli al programma alimentare hanno avuto un trafiletto a pagina 10. Le Nazioni Unite hanno anche denunciato che un miliardo di persone rischia di morire per le conseguenze della desertificazione. Secondo il giornale nigeriano Thisday, l'obiettivo era sensibilizzare l'opinione pubblica e incoraggiare il rispetto delle convenzioni internazionali sull'ambiente. Ma questo aspetto è stato completamente trascurato dalla stampa statunitense.

Succede di continuo. Basta ricordare che quando sbarcarono nella regione oggi occupata dal Bangladesh, gli invasori britannici rimasero allibiti dalla ricchezza e dallo splendore di un Paese che oggi è il simbolo della miseria. Come testimonia il destino del Bangladesh, la crisi alimentare non è solo il risultato della "mancanza di vero interesse" da parte dei potenti della terra. Adam Smith aveva osservato che all'epoca i "principali artefici" della politica britannica, cioè gli industriali e i mercanti, difendevano a tutti i costi i loro interessi. Non si preoccupavano delle conseguenze per i cittadini inglesi e tanto meno per quelli che erano soggetti "alla selvaggia ingiustizia degli europei", in particolare dell'India conquistata all'impero. Smith si riferiva al sistema mercantilistico, ma la sua osservazione ha un valore più generale ed è uno dei pochi princìpi solidi e duraturi che regolano sia i rapporti internazionali sia gli affari interni dei Paesi. E' anche vero che non si deve generalizzare troppo. Ci sono casi in cui gli interessi dello stato, compresi quelli economici e strategici a lungo termine, hanno la meglio su quelli delle concentrazioni di potere economico che di solito condizionano la politica, come in Iran e a Cuba.

La crisi alimentare è scoppiata ad Haiti all'inizio del 2008. Come il Bangladesh oggi Haiti è un simbolo di miseria e disperazione. E come il Bangladesh, quando arrivarono gli esploratori europei l'isola era ricca di risorse e aveva una popolazione florida e numerosa. In seguito diventò fonte di buona parte della ricchezza della Francia. Senza stare a ripetere tutta la storia, diciamo che l'attuale crisi alimentare di Haiti si può fare risalire direttamente al 1915. L'invasione voluta dal Presidente statunitense Woodrow Wilson fu sanguinosa, brutale e distruttiva. Il parlamento haitiano fu sciolto con le armi perchè rifiutava di approvare la "legge progressista" che avrebbe consentito alle aziende statunitensi di impossessarsi delle terre haitiane. Poi i marines di Wilson organizzarono libere elezioni in cui la legge fu approvata al 99,9% dal 5% della popolazione che potè votare. Tutto questo è passato alla storia come "idealismo wilsoniano".

Più tardi l'Usaid, l'agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, avrebbe creato programmi per trasformare Haiti nella "Taiwan dei Caraibi" in nome del sacro principio del vantaggio relativo: Haiti doveva importare cibo e altre merci dagli Stati Uniti, mentre gli operai, che erano soprattutto donne, dovevano lavorare in condizioni pietose alle catene di montaggio delle industrie americane. Nel 1990 le prime elezioni libere di Haiti misero in pericolo questo programma economico così razionale. La maggioranza povera del Paese entrò per la prima volta nell'arena politica ed elesse il suo candidato, il prete populista Jean-Bertrand Aristide. Washington adottò la procedura che usa sempre in questi casi: cominciò a boicottare il regime. Qualche mese dopo infatti arrivò il colpo di stato militare, e la giunta che prese il potere instaurò un regime di terrore, con l'appoggio di Bush senior e ancor più di Clinton, anche se l'amministrazione statunitense fingeva il contrario. Nel 1994 Clinton decise che la popolazione era intimidita a sufficienza e mandò i suoi soldati a reinstaurare il presidente eletto, ma a condizione che accettasse un duro regime liberista. In particolare, non doveva esserci nessuna forma di protezionismo economico. I coltivatori di riso haitiani erano bravissimi, ma non tanto da competere con le aziende agricole americane, che potevano contare su forti sussidi governativi soprattutto grazie a Reagan, definito da qualcuno l'alto sacerdote del libero scambio nonostante le sue iniziative di protezionismo estremo e di intervento dello stato nell'economia

Quindi non c'è da sorprendersi di quello che successe dopo. Un rapporto dell'Usaid del 1995 avvertiva che la politica commerciale e d'investimento imposta da Washington avrebbe ridotto alla fame i coltivatori di riso locali. Il neoliberismo smantellò quel poco che rimaneva della sovranità economica del Paese e lo fece precipitare nel caos. George W. Bush peggiorò la situazione bloccando gli aiuti internazionali per puro cinismo. A febbraio 2004 i due torturatori storici di Haiti, la Francia e gli Stati Uniti, appoggiarono un colpo di stato militare che costrinse il presidente Aristide all'esilio in Africa. Da allora, Haiti non è più riuscita a provvedere ai suoi bisogni alimentari ed è rimasta in balìa delle fluttuazioni dei prezzi delle derrate, che è stata la causa principale della crisi alimentare del 2008.

Storie simili si sono ripetute in molte parti del mondo. In senso stretto, forse è vero che la crisi alimentare è il risultato del disinteresse dell'occidente: sarebbe bastato poco per evitare gli effetti più gravi. Ma soprattutto è il risultato della totale dedizione ai principì di una politica statale condizionata dalle grandi imprese, come aveva indicato Adam Smith.

Sono tutti problemi che cerchiamo di non vedere, come il fatto che salvare le banche non è esattamente la prima preoccupazione di miliardi di persone che soffrono la fame, anche nel Paese più ricco del mondo. Non ci preoccupiamo neanche di cercare un modo per contenere la crisi, sia finanziaria sia alimentare. Lo suggerisce l'autorevole rapporto del Sipri, l'istituto di ricerche sulla pace di Stoccolma, secondo cui le spese militari sono altissime e in continuo aumento. Gli Stati Uniti spendono quasi quanto il resto del mondo messo insieme, sette volte di più della Cina che è al secondo posto. E' un dato che si commenta da solo.

La distribuzione delle nostre preoccupazioni dimostra che c'è anche un'altra crisi, una crisi culturale: la tendenza a concertrarsi sui vantaggi personali a breve termine è tipica delle nostre istituzioni economiche e del sistema ideologico che le sostiene. Ne sono un esempio gli incentivi creati dai manager per arricchirsi senza preoccuparsi delle conseguenze per gli altri, come il fatto che la gente comune paga involontariamente per salvare le aziende "troppo grandi per fallire". (...).

(Da un articolo di Noam Chomsky pubblicato sul "The Boston Review" - Internazionale, n.816 del 9/15 ottobre 2009. Noam Chomsky è docente di linguistica e filosofia al MIT di Boston. Esponente della sinistra radicale nordamericana è considerato il più brillante intellettuale militante del nostro tempo.)

Tuesday, October 20, 2009

Omofobia, la denuncia dell'Onu

Navi Pillay, alto commissario Onu ai Diritti umani BRUXELLES - "Affossare la legge contro l'omofobia è stato un passo indietro per l'Italia". L'Alto commissario Onu per i diritti umani, Navi Pillay, mette sotto accusa l'Italia. E denuncia le scelte del Parlamento, che non tengono conto delle violenze di cui sono spesso fatti oggetto gli omosessuali: "Per loro è necessaria una piena protezione". Navi Pillay entra a gamba tesa nella già accesa discussione nata dopo la bocciatura della legge che avrebbe introdotto l'aggravante per i reati commessi in danno di persone colpite per il loro orientamento sessuale. "L'omosessualità e gli omosessuali vengono criminalizzati in alcuni Paesi - ha detto il commissario Onu - ma non possiamo ignorare che i gruppi minoritari, e tra loro gli omosessuali, sono soggetti non solo a violenza, ma a discriminazioni in diversi aspetti della loro vita". Secondo Pillay, che era a Bruxelles per l'apertura del nuovo ufficio Onu per i diritti umani nell'Unione europea, è necessaria quindi "una piena protezione" per gli omosessuali.

Navi Pillay aveva già apertamente criticato il governo italiano per le scelte in materia di respingimenti dei migranti. Oggi il commissario per i diritti umani è ritornato sul problema sicurezza in Italia, criticando ancora una volta la circostanza aggravante della clandestinità contestata agli immigrati irregolari che commettano un crimine. "E' una discriminazione. Per gli immigrati irregolari - ha sottolineato Pillay - non ci può essere una sospensione dei diritti umani. Per punire lo stesso reato, dovrebbero esserci le stesse regole per chiunque. Non escludo - ha concluso il commissario - che l'Onu possa chiedere all'Italia di modificare la legge".
(La Repubblica, 14 ottobre 2009)

Libertà di stampa, Italia 49°

ROMA - Reporters sans frontiers ha pubblicato oggi l'annuale rapporto sulla libertà di stampa nel mondo. Secondo la nuova classifica i dati più rilevanti quest'anno sono l'aumento della libertà di stampa negli Stati Uniti dopo l'insediamento di Obama (dal 40esimo posto al 20esimo) e il peggiorare della situazione in paesi come Iran (73esimo) e Israele (150esimo, ma fuori dai territori israeliani). Anche per l'Italia un responso negativo, col nostro Paese che scende dalla 44esima posizione dell'anno scorso alla 49esima. Il Paese che quest'anno si piazza in testa alla classifica è la Danimarca, seguita da Finlandia e Irlanda. Ultimo classificato (su 175 parsi monitorati) l'Eritrea. (La Repubblica, 20 ottobre 2009)

Wednesday, October 14, 2009

La faccia feroce dell'Italia (di Miriam Mafai)

Ieri alla Camera affossata la legge contro l'omofobia. Una buona notizia per chi va a caccia di chi giudica "diverso" in un paese incattivito. Il commento della scrittrice Miriam Mafai.

ECCO una buona notizia per coloro che, in un'Italia che si è fatta sempre più incattivita e feroce, si muovono ogni notte, come cani da caccia, alla ricerca di una vittima da insultare, picchiare, trascinare per terra, sputacchiare, calpestare. Una vittima colpevole di una sua presunta "diversità". Una buona notizia, insomma per quanti hanno imparato e hanno in serbo gli insulti più volgari da buttare in faccia a coloro che, uomini o donne, hanno abitudini e tendenze sessuali diverse da quanti si definiscono "normali".

Questi presunti "normali" si appostano nelle strade frequentate da gay o lesbiche, li aspettano all'uscita dei locali da loro abitualmente frequentati, li inseguono, li insultano, li picchiano, abbandonandoli poi sanguinanti per terra. In questi ultimi giorni è accaduto più di una volta, in molte nostre città. È successo ancora a Roma, nella notte tra lunedì e martedì, in pieno centro, dove due presunti "diversi" sono stati lasciati a terra, sanguinanti, da un gruppo di teppisti "normali".

Ecco dunque per questi presunti "normali" una buona notizia. Alla Camera ieri è stato affossata una legge contro l'omofobia che, prima firmataria Paola Concia del Pd, inseriva tra le aggravanti dei reati, "fatti commessi per finalità inerenti all'orientamento o alla discriminazione sessuale della persona offesa". Era una buona legge. Flavia Perina, del Pdl, me ne aveva parlato recentemente, come di una legge che avrebbe dimostrato la possibilità di operare insieme, maggioranza e opposizione, per affrontare e risolvere problemi condivisi, superando il clima di feroce contrapposizione che caratterizza ormai da tempo la nostra vita politica.

La legge sembrava poter arrivare al traguardo. E invece no. Con un asse tra Udc e quasi tutto il centrodestra, è stata dichiarata l'incostituzionalità delle norme, seppellendo definitivamente il testo di legge. Se e mai un provvedimento contro l'omofobia rivedrà la luce, dovrà essere un disegno di legge nuovo e dovrà ricominciare l'iter dall'inizio. Tempi biblici, dunque.

Non tutta la maggioranza, tuttavia, si è prestata all'affossamento. Nove deputati, cosiddetti "finiani" hanno votato contro il rinvio della legge in Commissione Giustizia. Tra questi Flavia Perina, Italo Bocchino, Benedetto Della Vedova, Chiara Moroni. E altri deputati del Pdl si sono astenuti. Tra questi Giulia Buongiorno, presidente della Commissione Giustiziasi, Elio Vito e Gianfranco Rotondi. Anche l'opposizione, tuttavia, ha dovuto registrare la sua defezione. Ancora una volta l'on. Paola Binetti ha preso le distanze dal gruppo cui appartiene e votando con la maggioranza, ha provocato una dura reazione di Franceschini.

La fine di questa legge rappresenta, lo dicevamo all'inizio, una buona notizia, forse addirittura un incoraggiamento, per coloro che di notte vanno a caccia dei "diversi" in un paese che si va facendo sempre più incattivito, volgare e feroce. Forse la cultura della tolleranza, del rispetto degli altri, una cultura che qualcuno liquida sprezzantemente come "buonismo" è già perdente nel nostro paese. Ma sarà sempre più difficile vivere, convivere in un paese che faccia della "caccia al diverso" uno sport diffuso e vincente. (La Repubblica, 14 ottobre 2009)

Tuesday, October 13, 2009

La rivolta indigena è in tutto il mondo

Dal Perù alla Nigeria, dall'Equador alla West Papua, le popolazioni native si battono per impedire che le multinazionali sfruttino le risorse naturali. Un saggio del giornalista John Vidal sul quotidiano inglese "The Guardian".


E' stata definita la seconda "guerra mondiale del petrolio", ma l'unica cosa in comune tra l'Iraq e quello che è successo nel nord del Perù nelle ultime settimane è la disparità delle forze in campo. Da un lato la polizia peruviana con armi automatiche, gas lacrimogeni, elicotteri da guerra e camionette blindate. Dall'altro alcune migliaia di awajun e wambis con il corpo dipinto, armati di archi, frecce e lance.

All'inizio di giugno gli indigeni hanno scatenato una delle più grandi e violente proteste della storia recente del Perù. Un avvertimento non solo per Lima, ma anche per tutti gli altri governi dell'America Latina : è quello che potrebbe succedere se le aziende dovessero avere libero accesso al petrolio e al legname dell'Amazzonia. Il 5 giugno la polizia ha cercato di rimuovere un blocco stradale dei nativi vicino Bagua Grande. Sono cominciati subito gli scontri che hanno portato, secondo fonti non governative, alla morte di almeno cinquanta indigeni e di nove agenti di polizia. L'Ong Survival International ha parlato di una Tienanmen peruviana. "Gestiamo le foreste dell'Amazzonia da migliaia di anni", spiega Servando Puerta, uno dei leader delle proteste. "Questo è genocidio. Ci stanno uccidendo perchè difediamo la nostra vita, la nostra sovranità, la nostra dignità umana".

Ma il Perù non è l'unico Paese in cui c'è un conflitto tra il Governo e gli indigeni per lo sfruttamento delle risorse naturali. Negli ultimi anni ci sono state proteste in Africa, America Latina, Asia e Nordamerica. Dighe per le centrali idroelettriche, piantagioni per la produzione di biocarburanti, miniere di carbone, rame, oro e bauxite : sono tutte al centro di dispute sulla terra.

In Nigeria un'imponente forza militare continua ad aggredire le comunità che si oppongono alla presenza delle società petrolifere nel delta del Niger. Il delta, che fornisce il 90% delle entrate dall'estero, è sempre stato una regione instabile. Di recente, però, le armi nella regione sono aumentate notevolmente, e la situazione è peggiorata. Negli ultimi mesi sono stati colpiti dei villaggi sospettati di nascondere gruppi di ribelli. Migliaia di persone sono fuggite. Gli attivisti del movimento per l'emancipazione del delta del Niger (Mend) hanno risposto uccidendo dodici soldati e incendiando un complesso della compagnia petrolifera Chevron.

Nel frattempo in West Papuasia, nelle parte ovest della Nuova Guinea, le forze indonesiane che proteggono alcune delle più grandi miniere del mondo sono state accusate di violazioni dei diritti umani. Negli ultimi anni, negli scontri con l'esercito, sono morti centinaia di membri delle tribù indigene.

"E' in corso una violenta offensiva per sfruttare i territori indigeni", spiega Victoria Tauli-Corpus, nativa filippina e presidente del forum permanente delle Nazioni Unite sui temi degli indigeni. "C'è una crisi dei diritti umani. Gli arresti, le uccisioni e gli abusi sono sempre di più. Sta succedendo in Russia, Canada, Filippine, Cambogia, Mongolia, Nigeria, America Latina, Papua Nuova Guinea e Africa. E' in corso una battaglia per le risorse naturali in tutto il mondo. Gran parte delle materie prime - petrolio, gas, legno, minerali - si trova nelle terre occupate da popolazioni indigene". Appoggiate dai governi, le aziende si spingono in profondità in terre finora ignorate perchè considerate improduttive o selvagge. Nei prossimi anni, per rilanciare l'economia globale, i governi e la Banca Mondiale aumenteranno i loro investimenti in importanti progetti infrastrutturali. E questo moltiplicherà i conflitti.

Secondo gli indigeni, l'estrazione mineraria su larga scala è il fenomeno più dannoso. Clare Short, ex segretario britannico allo sviluppo internazionale e ora presidente del gruppo di lavoro sull'estrazione mineraria nelle Filippine, sostiene che da quando Manila ha aperto le porte alle multinazionali dell'estrazione mineraria, dieci anni fa, le comunità indigene sono state distrutte. Nel 2007 Short ha visitato le comunità filippine. Nel suo rapporto ha scritto :"Non ho mai visto nulla di così sistematicamente distruttivo. Gli effetti sull'ambiente e sulla vita della gente sono catastrofici. Si rimuovono le cime delle montagne (considerate sacre dai nativi) e si distruggono le fonti idriche, rendendo impossibile l'agricoltura".

In un rapporto pubblicato all'inizio del 2009, il gruppo commentava: "L'attività mineraria genera o aggrava la corruzione, alimenta i conflitti armati, aumenta la militarizzazione e le violazioni dei diritti umani". (...). (Internazionale, n.802 del 3/9 luglio 2009).

Saturday, October 10, 2009

Quel lavoro nero che ci piace tanto (di Randa Ghazy)

Bisogna dirlo : siamo simpatici noi italiani. Quando ci sono dei problemi cerchiamo di metterci una pezza per tornare a guardare i quiz e le partite alla TV. Ma dopo un po' il caos prende di nuovo il sopravvento, e allora proviamo a tappare i buchi qua e là, ma alla fine ci grattiamo la testa pensando : "Mmh...Forse non era la soluzione migliore".
Pinco Pallino, titolare di un'impresa di pulizie, ha alcuni dipendenti in nero. Sono bravi ragazzi e si danno un gran daffare, ma sono immigrati irregolari. E non sanno come regolarizzarsi, i poveretti. Sbatti a destra, sbatti a sinistra, non c'è soluzione. Da quando esiste il reato di clandestinità, hanno cominciato a camminare in punta di piedi, a guardarsi intorno con circospezione. Come dargli torto ? Non stiamo creando un bel clima attorno a loro. Se appartenessi alla minoranza di un Paese in cui alcuni utenti di Facebook giocano ad affondarti, in cui si approvano le ronde, in cui chi cerca di fuggire dall'inferno è rimandato indietro, in cui nessuno protesta per le aggressioni razziste, anch'io comincerei a guardarmi intorno con circospezione. Non si sa mai chi si può incontrare. Magari persone come quelle che hanno rotto le costole a mio padre. O il motociclista sconosciuto che ha accoltellato l'attore senegalese Mohamed Ba alla fermata dell'autobus. O i tre che sono scesi di casa per picchiare il congolese che aveva osato distribuire volantini.

Ogni tanto in questa specie di giungla, qualcuno fa il gesto di tendere una mano. Dopo una lunga attesa, spunta il miraggio di una regolarizzazione. Però, da buoni opportunisti, diciamo: "Regolarizziamo solo chi ci va. Come colf e badanti. Altrimenti chi si occupa di nonno Pasquale ?". Colf e badanti meritano un'opportunità, muratori, operai e braccianti, che lavorano come disperati, no.

Oggi va così. Lo Stato italiano sa benissimo che migliaia di irregolari cercheranno di improvvisarsi colf e badanti. Che spunteranno dei finti mediatori per fare quattrini alle spalle dei disperati. Che i datori di lavoro falsificheranno le domande, approfittando di gente disposta a lavorare gratis pur di farsi regolarizzare e non vivere più in clandestinità. Ma ecco il colpo di genio : il datore di lavoro che presenta la domanda non deve avere un reddito inferiore a ventimila Euro all'anno. Pinco Pallino mi ha rivelato che ventimila Euro non c'è li ha. Quindi niente regolarizzazione.

La verità e che noi non li vogliamo regolari. Ammettiamolo : il settore informale ci piace tanto. Il lavoro nero è nello spirito italiano, almeno quanto i giochetti su Facebook e gli striscioni razzisti contro i giocatori di colore. Oggi va così.

Navigando su Internet, però, mi sono imbattuta in qualcosa su cui vale la pena di riflettere :"Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l'acqua, molti puzzano perchè tengono lo stesso vestito per molte settimane. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci...Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti fra loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perchè poco attraenti e selvatici ma perchè si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati in strade periferiche. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro Paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o attività criminali". E' così che negli Stati Uniti vedevano gli immigrati italiani all'inizio del novecento.
(Randa Ghazy su Internazionale dell'11-17 settembre 2009. Randa Ghazy è una scrittrice nata a Saronno da genitori egiziani. Vive a Milano.)

Cosa vuol dire libertà di stampa (di Roberto Saviano)

MOLTI si chiederanno come sia possibile che in Italia si manifesti per la libertà di stampa. Da noi non è compromessa come in Cina, a Cuba, in Birmania o in Iran. Ma oggi manifestare o alzare la propria voce in nome della libertà di stampa, vuol dire altro. Libertà di poter fare il proprio lavoro senza essere attaccati sul piano personale, senza un clima di minaccia. E persino senza che ogni opinione venga ridotta a semplice presa di parte, come fossimo in una guerra dove è impossibile ragionare oltre una logica di schieramento. Oggi, chiunque decida di prendere una posizione sa che potrà avere contro non un'opinione opposta, ma una campagna che mira al discredito totale di chi la esprime. E persino coloro che hanno firmato un appello per la libertà di informazione devono mettere in conto che già soltanto questo gesto potrebbe avere ripercussioni. Qualsiasi voce critica sa di potersi aspettare ritorsioni.

Libertà di stampa significa libertà di non avere la vita distrutta, di non dover dare le dimissioni, di non veder da un giorno all'altro troncato un percorso professionale per un atto di parola, come è accaduto a Dino Boffo. Vorrei parlare apertamente con chi, riconoscendosi nel centrodestra, dirà: "Ma che volete? Che cosa vi mettete a sbraitare adesso, quando siete stati voi per primi ad aver trascinato lo scontro politico sul terreno delle faccende private erigendovi a giudici morali? Di cosa vi lamentate se ora vi trovate ripagati con la stessa moneta?". Infatti la questione non è morale. La responsabilità chiesta alle istituzioni non è la stessa che deve avere chi scrive, pone domande, fa il suo mestiere. Non si fanno domande in nome della propria superiorità morale. Si fanno domande in nome del proprio lavoro e della possibilità di interrogare la democrazia.

Un giornalista rappresenta se stesso, un ministro rappresenta la Repubblica. La democrazia funziona nel momento in cui i ruoli di entrambi sono rispettati. Per un giornalista, fare delle domande o formulare delle opinioni non è altro che la sua funzione e il suo diritto. Ma un cittadino che svolge il suo lavoro non può essere esposto al ricatto di vedere trascinata nel fango la propria vita privata. E una persona che pone delle domande, non può essere tacitata e denunciata per averle poste.

Non è sulla scelta di come vive che un politico deve rispondere al proprio Paese. Però quando si hanno dei ruoli istituzionali, si diventa ricattabili, ed è su questo piano, sul piano delle garanzie per le azioni da compiere nel solo interesse dello Stato, che chi riveste una carica pubblica è chiamato a rendere conto della propria vita. In questi anni ho avuto molta solidarietà da persone di centrodestra. Oggi mi chiedo: ma davvero gli elettori di centrodestra possono volere tutto questo? Possono ritenere giusto non solo il rifiuto di rispondere a delle domande, ma l'incriminazione delle domande stesse? Possono sentirsi a proprio agio quando gli attacchi contro i loro avversari prendono le mosse da chi viene mandato a rovistare nella loro sfera privata? Possono non vedere come la lotta fra l'informazione e chi cerca di imbavagliarla, sia impari e scorretta anche sul piano dei rapporti di potere formale? Chi ha votato per l'attuale schieramento di governo considerandolo più vicino ai propri interessi o alle proprie convinzioni, può guardare con indifferenza o approvazione questa valanga che si abbatte sugli stessi meccanismi che rendono una democrazia funzionante? Non sente che si sta perdendo qualcosa? Il paese sta diventando cattivo.

Il nemico è chi ti è a fianco, chi riesce a realizzarsi: qualunque forma di piccola carriera, minimo successo, persino un lavoro stabile, crea invidia. E questo perché quelli che erano diritti sono stati ridotti quasi sempre a privilegi. È di questo, di una realtà così priva di prospettive da generare un clima incarognito di conflittualità che dovremmo chiedere conto: non solo a chi governa ma a tutta la nostra classe politica. Però se qualsiasi voce che disturba la versione ufficiale per cui va tutto bene, non può alzarsi che a proprio rischio e pericolo, che garanzie abbiamo di poter mai affrontare i problemi veri dell'Italia? Il ricatto cui è sottoposto un politico è sempre pericoloso perché il paese avrebbe bisogno di altro, di attenzione su altre questioni urgenti, di altri interventi.

Il peggio della crisi per quel che riguarda i posti di lavoro deve ancora arrivare. In più ci sono aspetti che rendono l'Italia da tempo anomala e più fragile di altre nazioni occidentali democratiche, aspetti che con un simile aumento della povertà e della disoccupazione divengono ancora più rischiosi. Nel 2003 John Kerry, allora candidato alla Casa Bianca, presentò al Congresso americano un documento dal titolo The New War, dove indicava le tre mafie italiane come tre dei cinque elementi che condizionano il libero mercato quantificando in 110 miliardi di dollari all'anno la montagna di danaro che le mafie riciclano in Europa.

L'Italia è il secondo paese al mondo per uomini sotto protezione dopo la Colombia. È il paese europeo che nei soli ultimi tre anni ha avuto circa duecento giornalisti intimiditi e minacciati per i loro articoli. Molti di loro sono finiti sotto scorta. Ed è proprio in nome della libertà di informazione che il nostro Stato li protegge. Condivido il destino di queste persone in gran parte ignote o ignorate dall'opinione pubblica, vivendo la condizione di chi si trova fisicamente minacciato per ciò che ha scritto. E condivido con loro l'esperienza di chi sa quanto siano pericolosi i meccanismi della diffamazione e del ricatto. Il capo del cartello di Calì, il narcos Rodriguez Orejuela, diceva "sei alleato di una persona solo quando la ricatti". Un potere ricattabile e ricattatore, un potere che si serve dell'intimidazione, non può rappresentare una democrazia fondata sullo stato di diritto.

Conosco una tradizione di conservatori che non avrebbero mai accettato una simile deriva dalle regole. In questi anni per me difficili molti elettori di centrodestra, molti elettori conservatori, mi hanno scritto e dato solidarietà. Ho visto nella mia terra l'alleanza di militanti di destra e di sinistra, uniti dal coraggio di voler combattere a viso aperto il potere dei clan. Sotto la bandiera della legalità e del diritto sentita profondamente come un valore condiviso e inalienabile. È con in mente i volti di queste persone e di tante altre che mi hanno testimoniato di riconoscersi in uno Stato fondato su alcuni principi fondamentali, che vi chiedo di nuovo: davvero, voi elettori di centrodestra, volete tutto questo? Questa manifestazione non dovrebbe veramente avere colore politico, e anzi invito ad aderirvi tutti i giornalisti che non si considerano di sinistra ma credono che la libertà di stampa oggi significa sapersi tutelati dal rischio di aggressione personale, condizione che dovrebbe essere garantita a tutti.

Vorrei che ricordassimo sino in fondo qual è il valore della libertà di stampa. Vorrei che tutti coloro che scendono in piazza, lo facessero anche in nome di chi in Italia e nel mondo ha pagato con la vita stessa per ogni cosa che ha scritto e fatto a servizio di un'informazione libera. In nome di Christian Poveda, ucciso di recente in El Salvador per aver diretto un reportage sulle maras, le ferocissime gang centroamericane che fanno da cerniera del grande narcotraffico fra il Sud e il Nord del continente. In nome di Anna Politkovskaja e di Natalia Estemirova, ammazzate in Russia per le loro battaglie di verità sulla Cecenia, e di tutti i giornalisti che rischiano la vita in mondi meno liberi. Loro guardano alla libertà di stampa dell'Occidente come un faro, un esempio, un sogno da conquistare. Facciamo in modo che in Italia quel sogno non sia sporcato. (Roberto Saviano, La Repubblica, 2 ottobre 2009 - Questo articolo è stato pubblicato anche da El Paìs, The Times, Le Figaro, Die Zeit, dallo svedese Expressen e dal portoghese Espresso).