Wednesday, December 16, 2009

Io, nero italiano e la mia vita ad ostacoli (di Pap Khouma)


Sono italiano e ho la pelle nera. Un black italiano, come mi sono sentito dire al controllo dei passaporti dell'aeroporto di Boston da africane americane addette alla sicurezza. Ma voi avete idea di cosa significa essere italiano e avere la pelle nera proprio nell'Italia del 2009?

Mi capita, quando vado in Comune a Milano per richiedere un certificato ed esibisco il mio passaporto italiano o la mia carta d'identità, che il funzionario senza neppure dare un'occhiata ai miei documenti, ma solo guardandomi in faccia, esiga comunque il mio permesso di soggiorno: documento che nessun cittadino italiano possiede. Ricordo un'occasione in cui, in una sede decentrata del Comune di Milano, una funzionaria si stupì del fatto che potessi avere la carta d'identità italiana e chiamò in aiuto altre due colleghe che accorsero lasciando la gente in fila ai rispettivi sportelli. Il loro dialogo suonava più o meno così.

"Mi ha dato la sua carta d'identità italiana ma dice di non avere il permesso di soggiorno. Come è possibile?".
"Come hai fatto ad avere la carta d'identità, se non hai un permesso di soggiorno... ci capisci? Dove hai preso questo documento? Capisci l'italiano?". "Non ho il permesso di soggiorno", mi limitai a rispondere.
Sul documento rilasciato dal Comune (e in mano a ben tre funzionari del Comune) era stampato "cittadino italiano" ma loro continuavano a concentrarsi solo sulla mia faccia nera, mentre la gente in attesa perdeva la pazienza. Perché non leggete cosa c'è scritto sul documento?", suggerii. Attimo di sorpresa ma.... finalmente mi diedero del lei. "Lei è cittadino italiano? Perché non l'ha detto subito? Noi non siamo abituati a vedere un extracomunitario...".

L'obiezione sembrerebbe avere un qualche senso ma se invece, per tagliare corto, sottolineo subito che sono cittadino italiano, mi sento rispondere frasi del genere: "Tu possiedi il passaporto italiano ma non sei italiano". Oppure, con un sorriso: "Tu non hai la nazionalità italiana come noi, hai solo la cittadinanza italiana perché sei extracomunitario". Quando abitavo vicino a viale Piave, zona centrale di Milano, mi è capitato che mentre di sera stavo aprendo la mia macchina ed avevo in mano le chiavi una persona si è avvicinata e mi ha chiesto con tono perentorio perché stavo aprendo quell'auto. D'istinto ho risposto: "Perché la sto rubando! Chiama subito i carabinieri". E al giustiziere, spiazzato, non è restato che andarsene.

In un'altra occasione a Milano alle otto di mattina in un viale ad intenso traffico, la mia compagna mentre guidava ha tagliato inavvertitamente la strada ad una donna sul motorino. E' scesa di corsa per sincerarsi dello stato della malcapitata. Ho preso il volante per spostare la macchina e liberare il traffico all'ora di punta. Un'altra donna (bianca) in coda è scesa dalla propria macchina ed è corsa verso la mia compagna (bianca) e diffondendo il panico le ha detto: "Mentre stai qui a guardare, un extracomunitario ti sta rubando la macchina". "Non è un ladro, è il mio compagno", si è sentita rispondere.

Tutte le volte che ho cambiato casa, ho dovuto affrontare una sorta di rito di passaggio. All'inizio, saluto con un sorriso gli inquilini incrociati per caso nell'atrio: "Buongiorno!" o "Buona sera!". Con i giovani tutto fila liscio. Mentre le persone adulte sono più sospettose. Posso anche capirle finché mi chiedono se abito lì, perché è la prima volta che ci incontriamo. Ma rimango spiazzato quando al saluto mi sento rispondere frasi del genere: "Non compriamo nulla. Qui non puoi vendere!". "Chi ti ha fatto entrare?".

Nel settembre di quest'anno ero con mio figlio di 12 anni e aspettavo insieme a lui l'arrivo della metropolitana alla stazione di Palestro. Come sempre l'altoparlante esortava i passeggeri a non superare la linea gialla di sicurezza. Un anziano signore apostrofò mio figlio: "Parlano con te, ragazzino. Hai superato la linea gialla. Devi sapere che qui è vietato superare la linea gialla... maleducato". Facevo notare all'anziano che mio figlio era lontano dalla linea gialla ma lui continuava ad inveire: "Non dovete neppure stare in questo paese. Tornatevene a casa vostra... feccia del mondo. La pagherete prima o poi".

Qualche settimana fa all'aeroporto di Linate sono entrato in un'edicola per comprare un giornale. C'era un giovane addetto tutto tatuato, mi sono avvicinato a lui per pagare e mi ha indicato un'altra cassa aperta. Ho pagato e mi sono avviato verso l'uscita quando il giovane addetto si è messo a urlare alla cassiera: "Quell'uomo di colore ha pagato il giornale?". La cassiera ha risposto urlando: "Sì l'uomo di colore ha pagato!". Tornato indietro gli dico: "Non c'é bisogno di urlare in questo modo. Ha visto bene mentre pagavo". "Lei mi ha guardato bene? Lo sa con chi sta parlando? Mi guardi bene! Sa cosa sono? Lei si rende conto cosa sono?". Cercava di intimidirmi. "Un razzista!" gli dico. "Sì, sono un razzista. Stia molto attento!". "Lei è un cretino", ho replicato.

Chi vive queste situazioni quotidiane per più di 25 anni o finisce per accettarle, far finta di niente per poter vivere senza impazzire, oppure può diventare sospettoso, arcigno, pieno di "pregiudizi al contrario", spesso sulle spine col rischio di confondere le situazioni e di vedere razzisti sbucare da tutte le parti, di perdere la testa e di urlare e insultare in mezzo alla gente. E il suo aguzzino che ha il coltello dalla parte del manico, con calma commenta utilizzando una "formula" fissa ma molto efficace: "Guardate, sta urlando, mi sta insultando. Lui è soltanto un ospite a casa mia. Siete tutti testimoni...".

Ho assistito per caso alla rappresentazione di una banda musicale ad Aguzzano, nel piacentino. Quando quasi tutti se ne erano andati ho visto in mezzo alla piazza una bandiera italiana prendere fuoco senza una ragionevole spiegazione. Mi sono ben guardato dal spegnerla anche se ero vicino. Cosa avrebbe pensato o come avrebbe reagito la gente vedendo un "extracomunitario" nella piazza di un paesino con la bandiera italiana in fiamme tra le mani? Troppi simboli messi insieme. Ho lasciato la bandiera bruciare con buona pace di tutti.

Ho invece infinitamente apprezzato il comportamento dei poliziotti del presidio della metropolitana di Piazza Duomo di Milano. Non volevo arrivare al lavoro in ritardo e stavo correndo in mezzo alla gente. Ad un tratto mi sentii afferrare alle spalle e spintonare. Mi ritrovai di fronte un giovane poliziotto in divisa che mi urlò di consegnare i documenti. Consegnai la mia carta di identità al poliziotto già furibondo il quale, senza aprirla, mi ordinò di seguirlo. Giunti al posto di polizia, dichiarò ai suoi colleghi: "Questo extracomunitario si comporta da prepotente!".

Per fortuna le mie spiegazioni non furono smentite dal collega presente ai fatti. I poliziotti verificarono accuratamente i miei documenti e dopo conclusero che il loro giovane collega aveva sbagliato porgendomi le loro scuse. Furono anche dispiaciuti per il mio ritardo al lavoro.

Dopotutto, ho l'impressione che, rispetto alla maggioranza della gente, ai poliziotti non sembri anormale ritrovarsi di fronte a un cittadino italiano con la pelle nera o marrone. "Noi non siamo abituati!", ci sentiamo dire sempre e ovunque da nove persone su dieci. E' un alibi che non regge più dopo trent'anni che viviamo e lavoriamo qui, ci sposiamo con italiane/italiani, facciamo dei figli misti o no, che crescono e vengono educati nelle scuole e università italiane.

Un fatto sconvolgente è quando tre anni fa fui aggredito da quattro controllori dell'Atm a Milano e finii al pronto soccorso. Ancora oggi sto affrontando i processi ma con i controllori come vittime ed io come imputato. Una cosa è certa, ho ancora fiducia nella giustizia italiana. (La Repubblica, 12 dicembre 2009)

Pap Khouma, di origine senegalese, vive a Milano, dove si è sempre occupato di cultura e di letteratura, attraverso numerose e svariate esperienze. Ha partecipato come relatore a numerosi convegni nazionali e internazionali, presso le maggiori università italiane (Milano, Roma, Bologna), sui grandi temi dell'immigrazione, della cultura e della letteratura , e nel 1998 è stato invitato a svolgere un ciclo di conferenze negli Stati Uniti. Iscritto all'Albo dei giornalisti stranieri dal 1994, per quattro anni (1991-1995) ha firmato una rubrica su "Linus", e ha collaborato con "l'Unità", "Il Diario", "Epoca", "Sette", "Metro". Ha pubblicato Io, venditore di elefanti (insieme al giornalista e scrittore Oreste Pivetta, Garzanti ed. 1990), giunto oggi all'ottava edizione, adottato da molte scuole come libro di testo, e i cui brani sono inseriti in numerose antologie scolastiche, ed è stato curatore e coautore del libro Nato in Senegal immigrato in Italia (Ambiente ed. 1994).

Saturday, December 12, 2009

Treviso, Gentilini: "No ai parroci stranieri" (di Laura Canzian)


L'intervento del vicesindaco all'inaugurazione di un crocifisso di ferro nel giardino di palazzo Rinaldi: "Finirebbero per essere semplici funzionari ecclesiastici - spiega - il parroco invece deve conoscere la sua gente"

«Sacerdoti stranieri? No grazie». A dire la sua sui sacerdoti non italiani alla guida delle parrocchie è il vicesindaco Gentilini, che si giustifica così: «Finirebbero per essere semplici funzionari ecclesiastici - dice Gentilini - Il parroco invece deve conoscere la sua gente».

Tutto questo viene detto mentre svela il crocifisso di ferro nel giardino di palazzo Rinaldi, opera da lui voluta dopo la polemica sul simbolo sacro nata dopo la sentenza di Strasburgo. Dichiarazioni fatte a margine della cerimonia quelle di Gentilini. «Giudico negativa la carenza di sacerdoti - premette il vicesindaco - Quando un parroco deve gestire più parrocchie, non si radica nel territorio. Devono conoscere i loro cittadini». Cosa che, secondo Gentilini, non può fare un super-parroco né tantomeno un sacerdote di origine straniera, figure sempre più diffuse in zone come Genova e Firenze e che talvolta, con la loro presenza, «tamponano» la crisi di vocazioni dei nostri connazionali.

«Gli stranieri non conoscono le tradizioni», dice il prosindaco. Sopra di lui si erge il crocifisso in ferro battuto opera di Claudio Rottin, artista di Carbonera, voluto dal vicesindaco dopo la sentenza del Parlamento europeo che vieterebbe la presenza del simbolo cristiano nelle classi e contro cui la Lega ha combattuto un’aspra battaglia.  «Riaffermiamo così la nostra cristianità» dice Gentilini. Alla cerimonia mancano rappresentanti del clero. Il crocifisso è stato messo nel giardino di palazzo Rinaldi in tutta fretta, prima di Natale, e pare senza particolari autorizzazioni o richieste.

All’ombra della croce Gentilini si lascia andare anche a un commento sul probabile nuovo vescovo di Treviso, il francescano Gianfranco Agostino Gardin. «Sono contento - dice -. Spero introduca uno spirito innovativo, ma senza disconoscere la tradizione. E poi la chiesa deve guadagnarsi la simpatia dei giovani». (La Repubblica, 10 dicembre 2009)

Il razzismo esplode fra i banchi delle medie. "Non ci sediamo con i cinesi: puzzano" (di Franco Vanni)


A Quarto Oggiaro, quartiere difficile alla periferia di Milano, i prof convocano i genitori. E il collegio dei docenti decide che ogni quindici giorni gli studenti devono cambiare di posto e l’assegnazione dei banchi è decisa dai professori 

Tredicenni che non vogliono come compagni di banco gli studenti cinesi, perché dicono che «puzzano». Un’alunna che si alza durante l’ora di matematica e lancia il suo proclama: «L’Italia agli italiani!». Per scardinare quelli che vengono definiti «atteggiamenti razzisti inaccettabili», il collegio dei docenti di una terza media della scuola Trilussa, nel quartiere milanese di Quarto Oggiaro, ha preso una decisione drastica: ogni quindici giorni gli studenti devono cambiare di posto e l’assegnazione dei banchi è decisa dai professori.

«Vedere l’aula divisa in “quartieri” dava dolore, ora gli alunni avranno modo di conoscersi davvero», dice Adele Moroni, insegnante di italiano della classe, in cui nove dei 22 studenti sono stranieri. In un mese di sperimentazione, gli studenti hanno dovuto cambiare banco già tre volte. L’ultimo rimescolamento è stato appena fatto. Il progetto è stato preceduto da una lettera ai genitori, convocati a scuola «per discutere la situazione disciplinare della classe», dove in generale «i rapporti fra ragazzi non sono sempre facili».

Più esplicito l’avviso rivolto alle 13 famiglie italiane, in cui si parla di «intolleranza nei confronti dei non italiani». Nell’i ncontro con mamme e papà, martedì scorso, le professoresse hanno illustrato i risultati della nuova strategia di integrazione. «Anche se siamo solo all’inizio — racconta la Moroni — abbiamo avuto segnali importanti. In alcuni casi, commoventi». Una ragazzina marocchina, a cui in passato erano stati sporcati i vestiti “per scherzo” con della vernice, è stata invitata a studiare insieme al pomeriggio dai compagni. Uno studente ecuadoriano «spesso isolato» ora passa l’intervallo in compagnia.

Più difficile l’integrazione dei cinque alunni cinesi, arrivati in classe quest’anno. Nei loro confronti il pregiudizio sembra essere più radicato: «Non pagano le tasse», «ci rubano il lavoro», «sono diversi», dicono gli altri ragazzi. Non aiuta il fatto che, non sapendo la lingua, i cinque debbano passare molte ore da soli, con un docente che insegna loro l’italiano. La professoressa di sostegno della classe, sull’utilità del progetto non ha dubbi: «Che nel 2009 i ragazzi siano razzisti è assurdo — dice — andremo avanti con i posti a rotazione fino a quando non avremo vinto la sfida».

La professoressa Moroni è andata a comprare un albero di Natale da mettere in classe. Ogni studente sarà chiamato a portare un oggetto da casa, di poco valore ma “con un significato”. Prima delle vacanze natalizie, con una lotteria, gli oggetti saranno distribuiti fra gli alunni in modo casuale. (La Repubblica,1 dicembre 2009)

Friday, November 27, 2009

Immigrati, appello del Papa: "Hanno diritti inalienabili"


Il Vaticano esprime "dolore" e "tristezza" per l'operazione "White Christmas" nel comune di Coccaglio

CITTA' DEL VATICANO - "Il migrante è una persona umana con diritti fondamentali inalienabili da rispettare sempre e da tutti". Questo il senso dell'intervento di Benedetto XVI, in riferimento alla Giornata del Migrante e del Rifugiato prevista per il 17 gennaio prossimo. Il Papa ha sottolineato l'importanza di prendersi cura dei migranti e dei rifugiati minorenni, ricordando che anche Gesù, da bambino, ha vissuto sulla propria pelle l'esperienza della migrazione. Anche per questo, ha proseguito il Pontefice, "ai figli degli immigrati deve essere data la possibilità di frequentare la scuola e inserirsi nel mondo del lavoro". Tenendo presente, poi, che "un minore non accompagnato non può essere rimpatriato".

"Auspico di cuore che si riservi la giusta attenzione ai migranti minorenni, bisognosi di un ambiente sociale che consenta e favorisca il loro sviluppo fisico, culturale, spirituale e morale", ha detto il Papa. Mentre il presidente del Pontificio Consiglio per la pastorale dei migranti, mons. Antonio Maria Veglio, ha ricordato che molto spesso i diritti dei più piccoli non vengono rispettati. Uno su tutti, quello per cui un "minore non accompagnato non può essere rimpatriato": a stabilirlo, sono norme internazionali.

La Giornata del Migrante 2010 sarà dedicata proprio a loro, i bambini, con il titolo "I migranti e i rifugiati minorenni". Si tratta, ha spiegato il Pontefice, di "un aspetto che i cristiani valutano con grande attenzione, memori del monito di Cristo, il quale nel giudizio finale considererà riferito a Lui stesso tutto ciò che è stato fatto o negato ai più piccoli". "E - ha chiesto Papa Ratzinger - come non considerare tra i più piccoli anche i minori migranti e rifugiati? Gesù stesso - ha proseguito - ha vissuto da bambino l'esperienza del migrante perchè, come narra il Vangelo, per sfuggire alle minacce di Erode dovette rifugiarsi in Egitto insieme a Giuseppe e Maria".

Il Vaticano ha inoltre espresso "tristezza" e "dolore" per la cosiddetta operazione "White Christmas", Bianco Natale, con cui l'amministrazione leghista di Coccaglio (nel bresciano) ha deciso di espellere gli extracomunitari prima dell'arrivo del Natale. "Il Bianco Natale è una canzone sulla neve, è molto triste quel che si legge", ha affermato mons. Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio per la pastorale di migranti e degli itineranti. "E' una vicenda dolorosa", ha proseguito mons. Agostino Marchetto, segretario del dicastero. "Il Natale celebra il mistero dell'annunciazione alla Vergine e chiama all'accoglienza di Gesù bambino. Anche Lui, come ha detto il Papa nel suo messaggio, era un rifugiato in Egitto".

Gli esponenti del Consiglio Pontificio per la pastorale dei migranti si sono inoltre soffermati sulle ragioni che spesso condannano i minorenni alla clandestinità, come ad esempio "la difficoltà, o talvolta l'impossibilità, di accedere al paese di destinazione desiderato". "Ciò spinge - ha spiegato mons. Vegliò - i minorenni e le famiglie a tentare l'immigrazione irregolare. In questi casi, i genitori pongono tutte le loro speranze nella riuscita del minore che emigra, il quale è pronto a subire ingiustizie, violenze e maltrattamenti pur di ottenere un permesso di soggiorno, forse una formazione scolastica, soprattutto un lavoro per poter aiutare la famiglia". Tutto questo, ha commentato l'arcivescovo Marchetto, "spesso non viene capito dai membri della società civile, che agiscono e reagiscono secondo stereotipi, preconcetti e pregiudizi all'arrivo dei rifugiati". "Perciò - ha concluso - i comportamenti di discriminazione, xenofobia e razzismo vanno affrontati con politiche atte a salvaguardare, rinforare e proteggere i diritti dei rifugiati e degli sfollati". (La Repubblica, 27 novembre 2009)

Finanziaria, proposta della Lega: "Solo 6 mesi di cig per gli stranieri"


Il Carroccio propone trattamento diverso per gli immigrati in tema di ammortizzatori sociali.
L'opposizione: "Emendamento razzista". Il ministro Carfagna: "Una provocazione"

ROMA - Cassa integrazione limitata per i cittadini extracomunitari che lavorano in Italia. La Lega apre un nuovo fronte di scontro e propone un emendamento che limita a sei mesi gli strumenti di sostegno al reddito. A farsi carico dell'annuncio è il deputato Maurizio Fugatti. Che spiega così l'uscita del Carroccio: "Le risorse sono quelle che sono e prima di tutto dobbiamo guardare ai cittadini italiani. Quindi diamo la cassa integrazione anche ai cittadini extracomunitari ma solo per sei mesi. Se non c'è lavoro per gli italiani, non c'è per nessuno. Prima dobbiamo pensare agli italiani".

Passano pochi minuti e le opposizioni si scatenano. "Quell'emendamento e' palesemente incostituzionale e sono sicura che la presidenza della Camera lo dichiarera' inammissibile - taglia corto la capogruppo del Pd nella commissione Affari costituzionali della Camera, Sesa Amici - Sono norme incivili e razziste del tutte prive di ogni fondamento e ragion d'essere''.
Ancor più duro il senatore democratico Paolo Nerozzi: "La proposta della Lega è una nuova forma di legge razziale nel mondo del lavoro". E l'accusa di razzismo torna anche nelle parole del capogruppo dell'Idv alla Camera, Massimo Donadi. Ma anche dentro il governo crescono le perplessità: "E' una provocazione, che sono certa non avrà alcun seguito in Parlamento" dice il ministro delle Pari opportunità Mara Carfagna. mentre il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ricorda come la cig sia un diritto soggettivo di tutti i lavoratori.
Anche il sindacato fa sentire la sua voce: "Una iniziativa xenofoba e una vera e propria sciocchezza giuridica - dice la Cgil - Questi lavoratori pagano come per tutti gli altri i contributi per accedere agli ammortizzatori sociali. Quindi si tratta di un emendamento improponibile a meno che la Lega non pensi che i lavoratori stranieri devono solo versare e difficilmente ricevere il corrispettivo di quanto versato. E' una esplicita istigazione al lavoro nero".
Critica anche la Cisl che, per bocca del segretario Raffele Bonanni bolla l'iniziativa: "I lavoratori immigrati regolari pagano i contributi e le tasse in italia e hanno diritti al pari di tutti i lavoratori italiani".
Parole a cui fa eco l'ex ministro del Lavoro Cesare Damiano: "Non solo si colpiscono i lavoratori oggettivamente più deboli ma si crea una condizione di rottura del rapporto di lavoro che spingerà inevitabilmente queste persone nel vicolo cieco della clandestinità e del lavoro nero". (La Repubblica, 27 novembre 2009)

Sunday, November 22, 2009

Il "natale bianco" che insulta tutti noi (di Francesca Comencini)


La Lettera a Repubblica di Francesca Comencini, figlia del regista Luigi Comencini, morto nel 2007.

Caro direttore, leggo sui giornali dell'operazione "White Christmas", messa in atto dal sindaco di Coccaglio, che consiste nell'individuare, casa per casa, tutte le persone straniere non in regola e cacciarle, in vista del Natale. La notizia mi colpisce, non solo per l'idea di accoglienza, di cittadinanza e di cristianità che la sottende, ma anche perché Coccaglio è il luogo dove riposano i miei nonni, Cesare Comencini e Mimì Hefti Comencini. Per loro mi sento in obbligo di scrivere questa lettera.

Mia nonna, figlia di una famiglia svizzera tedesca, si innamorò di mio nonno Cesare e per sposarlo dovette combattere contro tutti i pregiudizi di cui gli italiani erano vittime nel suo paese. Gli svizzeri tedeschi non amavano gli italiani, li consideravano sporchi, primitivi, ne avevano paura, al massimo li impiegavano nelle loro fabbriche o per pulire le loro case. Ma mia nonna non cedette, si sposò con il suo Cesare e venne a vivere in Italia. Mio nonno era di origini modeste, ma con molti sacrifici era riuscito a laurearsi in ingegneria. Tuttavia in Italia non riusciva ad assicurare una vita sufficientemente degna a sua moglie, e ai loro due figli che nel frattempo erano nati, mio padre, Luigi, e suo fratello Gianni. Vivevano a Salò, dove gli affari andavano molto male. Un giorno mio nonno decise di emigrare in Francia, aveva sentito che lì si compravano terre a basso prezzo, perché i francesi abbandonavano la campagna, e per ogni due francesi c'era un italiano. Così partirono.

La loro vita in Francia non fu facile, i miei nonni, poco esperti dei lavori agricoli, dovettero imparare tutto. Nel suo libro, "Infanzia, vocazione e prime esperienze di un regista", mio padre racconta: "Ora riesce difficile immaginare com'era la nostra vita nelle campagne del Sud-ovest francese. Non avevamo né luce, né acqua corrente. Ma avevamo il pianoforte. Ogni sera, dopo cena, mio padre sedeva in poltrona, e, cullato dalla musica di mia madre, lentamente sprofondava nel sonno". A scuola, mio padre, che quando arrivò in Francia aveva sei anni, veniva sempre messo da solo all'ultimo banco, e regolarmente chiamato "Macaroni", come in Francia venivano chiamati gli immigrati italiani. Fu mio nonno Cesare a soffrire più di tutti per la lontananza dall'Italia. Mio padre ricorda che si era costruito una radio a galena, che tutte le sere si ostinava a cercare di far funzionare. Quando mio nonno si ammalò iniziò a dire "non voglio morire in Francia, non voglio morire in Francia". Così mia nonna lo riportò a casa, in Italia, da suo fratello, a Coccaglio.

Fu sepolto nel piccolo cimitero di Coccaglio, dove molti anni dopo lo raggiunse mia nonna, che dopo la sua morte era rimasta a vivere in Italia, a Milano. I miei nonni sapevano cos'è lasciare il proprio paese per poter lavorare, cos'è essere stranieri, sapevano cos'è la dignità da salvare, per sé e per i propri figli. Al funerale di mia nonna ricordo che mio padre lesse quel brano del Vangelo secondo Matteo in cui Gesù dice "Ama il prossimo tuo come te stesso". Mia nonna era credente a modo suo, di religione Valdese. Ricordo un giorno, un venerdì santo, era venuta a trovarci a Roma per Pasqua, e io la trovai in camera sua, che piangeva piano e quando le chiesi perché mi rispose, asciugandosi in fretta gli occhi con il fazzoletto che teneva sempre nella manica del suo golfino: "Penso a Gesù, a come doveva sentirsi solo e impaurito nel giardino di Getsemani". I miei nonni riposano nel cimitero di Coccaglio, che non è solo la casa di chi provvisoriamente ne amministra il comune in questi anni, ma è stata anche la loro, e quindi ora è un po' la mia e di tanti altri, che, come me, discendono da chi ha dovuto lasciare l'Italia per lavorare, con fatica, dolore, umiliazione. E sono sicura che i miei nonni, se potessero alzarsi e sorgere dalla memoria, condannerebbero chi ha osato inventare l'operazione "White Christmas". A nome loro, tramite queste righe, lo faccio io.  (La Repubblica, 19 novembre 2009)

Friday, November 20, 2009

Un bianco Natale senza immigrati (di Sandro De Riccardis)


Brescia, il comune leghista di Coccaglio lancia l'operazione "White Christmas". I vigili casa per casa a controllare gli extracomunitari: chi non è in regola perde la residenza. Obiettivo: "Far piazza pulita" dice il sindaco. E l'assessore alla Sicurezza afferma: "Natale non è la festa dell'accoglienza ma della tradizione cristiana"

A Coccaglio la caccia ai clandestini si fa in nome del Natale. L'amministrazione di destra - sindaco e tre assessori leghisti, altri tre Pdl - ha inaugurato nel piccolo comune bresciano l'operazione "White Christmas", come il titolo della canzone di Bing Crosby, usato per ripulire la cittadina dagli extracomunitari.

Un nome scelto proprio perché l'operazione scade il 25 dicembre. E perché, spiega l'ideatore dell'operazione, l'assessore leghista alla Sicurezza Claudio Abiendi "per me il Natale non è la festa dell'accoglienza, ma della tradizione cristiana, della nostra identità". È così che fino al 25 dicembre, a Coccaglio, poco meno di settemila abitanti, mille e 500 stranieri, i vigili vanno casa per casa a suonare il campanello di circa 400 extracomunitari. Quelli che hanno il permesso di soggiorno scaduto da sei mesi e che devono aver avviato le pratiche per il rinnovo. "Se non dimostrano di averlo fatto - dice il sindaco Franco Claretti - la loro residenza viene revocata d'ufficio".
L'idea dell'operazione intitolata al Natale nasce dopo l'approvazione del decreto sicurezza che dà poteri più incisivi al sindaco, che poi chiede ai suoi funzionari di verificare i dati dell'Anagrafe sugli stranieri. Nel paese, in dieci anni, gli extracomunitari sono passati dai 177 del 1998 ai 1562 del 2008, diventando più di un quinto della popolazione. Con marocchini, albanesi e cittadini della ex Jugoslavia tra i più presenti. "Da noi non c'è criminalità - tiene a precisare Claretti - vogliamo soltanto iniziare a fare pulizia".
A Coccaglio fino a giugno e per 36 anni ha governato la sinistra. "È solo propaganda - dice l'ex sindaco Luigi Lotta, centrosinistra - Io ho lasciato un paese unito, senza problemi d'integrazione. L'unico caso di cronaca degli ultimi anni, un accoltellamento tra kosovari, nemmeno residenti da noi, c'è stato sotto la nuova amministrazione".
L'idea di accostare la caccia agli irregolari al Natale, ha provocato le proteste di un pezzo di città. "Io sono credente, ho frequentato il collegio dai Salesiani. Questa gente dov'era domenica scorsa? Io a Brescia dal Papa", replica Abiendi, che si definisce "tra i fondatori della Lega Nord, nel 1992". Poi enumera i risultati dell'operazione "Bianco Natale": "Dal 25 ottobre abbiamo fatto 150 ispezioni. Gli irregolari sono circa il 50% dei controllati". E ora al modello Coccaglio guardano anche i sindaci leghisti dei comuni vicini, due (Castelcovati e Castrezzato) l'hanno già copiato. Lo scorso 24 ottobre, alla prima convention di sindaci leghisti, a Milano, la "White Chistmas" ha avuto l'appoggio convinto dello stato maggiore del partito. "Il ministro Maroni è un uomo pratico - dice ora Claretti - ci ha dato dei consigli per attuare il provvedimento senza incorrere nei soliti ricorsi ai giudici". Sul riferimento al Natale, il sindaco accetta le critiche. "Forse è stato infelice. Ma l'operazione scadrà proprio quel giorno lì". (La Repubblica, 18 novembre 2009)

Ultimo scempio sugli immigrati (di Gad Lerner)


La denuncia di Gad Lerner sugli effetti devastanti che la Legge sui processi brevi avrà sugli immigrati clandestini in Italia

Pur di acquisire il consenso della Lega a un provvedimento di vitale interesse per il loro principale,  i maldestri giuristi di Berlusconi, in spregio al Codice Penale, patrocinano una riforma del processo che modifica profondamente il senso comune di giustizia e lo stesso orizzonte dei valori civili. Di fatto, introducono nel diritto italiano il principio della discriminazione su base etnica e di censo. Come definire altrimenti la scelta di escludere dal beneficio della prescrizione gli imputati di immigrazione clandestina ? Questo prevede il disegno di legge "per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi". Una scelta inequivocabile, come del resto quella di considerare il furto e lo scippo reati più gravi della corruzione.
Esprimendo "indignazione e tristezza", lo denuncia il padre gesuita Giovanni La Manna:"La già insensata fattispecie di reato di immigrazione clandestina, semplice contravvenzione punita con un'ammenda, da oggi viene equiparata ai reati di mafia e terrorismo". Non è un paradosso. Lo straniero irregolare, se approvata la nuova legge, subirà la medesima limitazione di garanzie riservata a presunti mafiosi e terroristi.
La fretta di escogitare un salvacondotto che preservi un singolo potente dal naturale corso della giustizia genera dunque un mostro giuridico. La destra al governo, vincolata dall'allarme sociale che la sua stessa propaganda ha esasperato, agita come un vessillo la fermezza nei confronti della microcriminalità di strada e degli stranieri irregolari, sebbene in realtà oggi stia perseguendo l'impunità dei suoi vertici. Le riesce impossibile coniugare garantismo e populismo. Ridisegna piuttosto un'iniqua mappa dei cittadini meritevoli di essere protetti dalle lungaggini dei tribunali; da privilegiare rispetto agli altri, indegni perchè estranei ai suoi criteri di onorabilità.
E' tipico di un regime plutocratico e demagogico tollerare la corruzione come reato meno grave dello scippo. Confidando sul  fatto che un'anziana cui hanno strappato la borsetta al mercato desideri giustamente la punizione severa del "suo" ladro, rassegnata viceversa all'inevitabile spregiudicatezza di chi sta troppo in alto, intoccabile. Vogliono convincerla che il governante è perseguitato per invidia o fanatismo politico. Come ricompensa, la rassicurano: lo straniero suo vicino di casa resterà perseguibile. C'è un diritto mite per la gente perbene, di cui anche  lei fa parte, e un diritto implacabile per gli estranei.
La colpa originaria del clandestino sia dunque imprescrittible. Egli appartiene a una categoria destinata a restare priva di garanzie. Il principio costituzionale dell'uguaglianza di fronte alla legge non deve riguardarlo. Tale riforma del diritto, che spacca in due la cittadinanza, trova conferma nella norma che privilegia gli incensurati rispetto a coloro che hanno precedenti penali quand'anche siano processati insieme per il medesimo reato: dopo due anni il giudice dovrà prosciogliere l'incensurato, ma non il suo complice recidivo.
La carica ideologica della norma che rende imprescrittibile la condizione di "clandestino" sovrasta i suoi effetti pratici. Sappiamo bene che il reato di immigrazione illegale minaccia l'esistenza di molti stranieri cui è scaduto il permesso di soggiorno - e non solo coloro che varcano di nascosto le nostre frontiere - senza che la salatissima multa eserciti alcuna dissuasione concreta. Ma la regola introdotta su richiesta della Lega - a dispetto dell'equità giuridica e di quanto concordato al vertice del Pdl - sancisce una novità di portata storica. La Legge introdotta di recente, come è noto, punisce con la sola sanzione amministrativa il comportamento di chi si trova in Italia senza permesso. Pochi mesi dopo, a dispetto della norma appena stabilita, ecco che un nuovo disegno di legge ingigantisce la valutazione di gravità del medesimo comportamento fino a prevedere il trattamento giuridico penale.
Un'altra volta, con la consueta prontezza, la Lega approfitta delle difficoltà del premier imponendogli la sua egemonia culturale. Prosegue così la modificazione normativa del sentimento xenofobo, ultimo effetto di una giustizia spaccata in due. (Gad Lerner, La Repubblica, 14 novembre 2009)

Thursday, November 12, 2009

L'autorità del male (di Giorgio Bocca)


Stefano Cucchi, un giovane romano arrestato dai carabinieri in possesso di una quantità di droga sufficiente per farlo considerare uno spacciatore, è morto durante la detenzione. Di certo aveva sul viso e sul corpo il segno di percosse, di certo si sa che polizia e medici non gli hanno prestato le cure necessarie a salvargli la vita.
Secondo il sottosegretario Carlo Giovanardi, costretto poi a scusarsi, "se l'è voluta", come usa dire, prima rovinandosi la salute, poi violando la legge e infine, presumibilmente, offrendosi per il solo fatto di esistere all'ira e alla violenza degli "agenti dell'ordine", che in lui non potevano non vedere un intollerabile disordine.

Giustificati, a delitto avvenuto, da quanti come Giovanardi pensano di essere uomini d'ordine, per aver risposto a una provocazione. Sul caso sono state scritte pagine e pagine di moralità, di doglianze per la mancanza di pietà e di carità, e sull'oscurità che sempre circonda questi rapporti fra le forze dell'ordine e i cittadini. Ma vediamo di parlare del caso Cucchi da un punto di vista sociologico. Un cittadino come Stefano Cucchi rappresenta un pericolo per l'ordine sociale? E perché? Perché si droga e spaccia droga? Sì, ma perché lo fa con la decisiva aggravante di essere un poveraccio, visibilmente ammalato, menomato, tanto che non si sa bene se parte delle ferite visibili sul suo corpo se le sia procurate "cadendo dalle scale".

La vera colpa di Stefano Cucchi è di essere un ammalato, un rottame umano che vaga per la grande città. Nella stessa città una moltitudine di cittadini rispettosi dell'ordine e con posti di alta responsabilità sociale si drogano ma non spacciano, non cadono per le scale, non oppongono resistenza ai poliziotti.

Normalmente diresti che la differenza è inesistente, che tutti violano il dovere di essere socialmente responsabili, socialmente capaci di intendere e di volere, ma socialmente le cose stanno in modo radicalmente diverso: i cittadini non sono uguali davanti alla legge come dicono le costituzioni, la società si divide fra i ricchi di denaro e di conoscenze, cui è lecito truffare il prossimo con la finanza, con l'industria, con informazione, con la medicina, e con quasi tutte le umane professioni, e quelli che per truffe minori e moralmente tollerabili come il furto per fame, vengono lapidati come Cucchi.

Il dilemma sociale vero, quello che può decidere sulla libertà o sulla servitù della società futura è questo: democrazia autoritaria a favore dei ricchi e sapienti e a spese dei poveri e ignoranti, o democrazia dei diritti e dei doveri garantita dalle leggi? Il caso può fornire dei suggerimenti. In pratica come era possibile risolverlo evitando il tragico epilogo? I poliziotti che lo conoscevano potevano fare a meno di arrestarlo per la detenzione di una piccola quantità di droga proprio nei giorni in cui su tutti i giornali si legge che fanno uso di droga parecchi delegati del popolo al governo della nazione. Comportarsi insomma come con l'immigrazione irregolare delle badanti e degli operai, su cui si sono chiusi entrambi gli occhi perché faceva comodo sia al nostro benessere che alla nostra economia. Ma come non vedere che alla base di questi compromessi, di queste eccezioni alla severità e al rigore c'è una crescente pressione della parte povera e diseredata? E che questa crescente pressione potrebbe tradursi negli anni a venire, prima nella democrazia autoritaria già in corso e tacitamente approvata dalla maggioranza benestante del paese, e poi nella semplificazione feroce delle dittature nelle quali i poveri e riottosi venivano lasciati o fatti morire?

Come non vedere che a due decenni dalla caduta del muro di Berlino si profilano altri muri di separazioni coercitive? Il banchiere Cuccia era solito dire che le azioni della società "non si misurano a numeri, ma a peso". Ed è così, e di quasi tutto ciò che conta nella nostra vita: denaro come giustizia, salute, bellezza, libertà. La soluzione autoritaria e magari schiavista è la più semplice, la più risolutiva in apparenza. Simile alla celebre frase di Tacito: "E dove fanno il deserto lo chiamano pace". La dittatura nessuno la auspica e la vuole, a parole, ma in molti la preparano, giorno per giorno, approvando, spalleggiando ogni giorno ciò che svuota la democrazia, aggiungendovi ogni giorno qualcosa che la limita. Il passaggio dall'autoritarismo al terrore si annuncia in modi disparati, apparentemente disparati. Oggi è il drogato ucciso a percosse, domani il barbone bruciato vivo, la donna con le mani tagliate, che sembrano non lasciare traccia. Ma la lasciano, lasciano l'ostilità alle leggi, l'avversione ai diritti umani, l'ignoranza dei doveri. Per definire il colonialismo Mussolini diceva che era il nostro "mal d'Africa". Ma quanti sono in Italia quelli che ancora soffrono del "male autoritario"?  (La Repubblica, 12 novembre 2009)

Monday, November 9, 2009

Crocifissi nelle aule e veri cristiani (di Alessio Ponz de Leon & C.)


Dedicata da un laico a tutti i veri cristiani, che si reputano tali perché difendono a spada tratta il crocifisso nelle aule scolastiche, ma che vogliono vedere affondare le barche cariche di immigrati clandestini, che picchiano gli omosessuali perché sono diversi, che detestano i mendicanti e chi lava i parabrezza per strada, che odiano i nomadi e ne devastano i campi, che detestano i colori della pelle diversi dalla propria. .

Dal Vangelo secondo S. Matteo – Il giudizio finale
“Quando verrà il Figlio dell’uomo nella sua maestà, con tutti gli Angeli, si assiderà sul trono della sua gloria. E tutte le nazioni saranno radunate davanti a lui, ma egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri; e metterà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che sono alla sua destra: Venite, benedetti dal Padre mio, prendete possesso del regno preparato per voi sino dalla creazione del mondo. Perché ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere; fui pellegrino e mi albergaste; ero nudo e mi rivestiste; infermo e mi visitaste; carcerato e veniste a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti vedemmo affamato e ti demmo ristoro; assetato e ti demmo da bere ? Quando ti vedemmo pellegrino e ti alloggiammo, o nudo e ti rivestimmo ? Quando ti vedemmo infermo o carcerato e siamo venuti a visitarti ? E il re risponderà loro: In verità vi dico: ogni volta che voi avete fatto queste cose a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatta a me.

Infine dirà anche a quelli che saranno alla sua sinistra: Andate lontano da me, voi maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per gli angeli suoi. Perché ebbi fame e non mi deste da mangiare; ebbi sete e non mi deste da bere; fui pellegrino e non mi albergaste; nudo e non mi rivestiste; infermo e carcerato e non mi visitaste. Allora anche questi gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato, o pellegrino, o nudo, o infermo, o carcerato, e non t’abbiamo assistito ? Ma egli risponderà loro: In verità vi dico: qualunque cosa non avete fatto a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, non l’avete fatta a me. E costoro andranno all’eterno supplizio, i giusti invece alla vita eterna”. (Alessio Ponz de Leon & C., per il suo Blog)

Sunday, November 8, 2009

Nella "buca degli afgani" senza più dignità (di Carlo Ciavoni)

In attesa dell'asilo politico che non arriva mai


ROMA - E' incrociando i loro sguardi, smarriti, disperati, o anche avvicinandosi alle baracche in mezzo al fango, fatte di coperte, cartoni e pezzi di legno, che si intuisce come questi 100-150 giovani afgani, rifugiati in uno scavo per le fondamenta di un edificio in via Capitan Bavastro all'Ostiense, siano le prime vittime di un corto circuito tra il fenomeno planetario delle migrazioni e l'angusta politica del governo italiano, in evidente rotta di collisione con le direttive europee e la Costituzione italiana.

Mille storie di uomini che sembrano aver perso la dignità, s'intrecciano nel "villaggio afgano", a poco più di un chilometro dal Colosseo e dal Campidoglio, tutte accomunate da un solo destino: quello di essere cacciati. Un rischio soprattutto per i circa 80 rifugiati in transito all'Ostiense, che vogliono proseguire il loro viaggio - costato già migliaia di euro, preda di "avvoltoi" di tutte le specie - per raggiungere altri paesei europei.
Rischiano perché non si sono fatti censire dal Comune, per una scelta legittima, ma imposta dal trattato di Dublino del 1990, un accordo internazionale che sancisce il principio secondo il quale, un rifugiato accolto in uno dei paesi UE, se poi decide di andare in un'altra nazione europea, viene subito rimandato dove è stato censito la prima volta.
Per tutti gli altri - circa 60 - che scelgono invece di farsi censire, l'assessore alle politiche sociali del Campidoglio, Sveva Belviso, garantisce l'accoglienza al CARA (il centro di accoglienza dei richiedenti asilo) della Croce Rossa a Castelnuovo di Porto, a Nord di Roma. "Al di là della disponibilità del Comune di Roma - dice Alberto Barbieri di Medici per i diritti umani, da anni impegnati nell'assistenza degli afghani - manca un passaggio decisivo: la possibilità di accogliere civilmente e dignitosamente anche le persone solo in transito".
"Una condizione - aggiunge il dottor Barbieri - che deve certamente essere regolata da norme precise e tempi di permanenza certi, ma in sistemazioni che, per quanto brevi e temporanee, devono essere decorose e igienicamente accettabili".
I residenti della "buca dell'Ostiense" si chiamano Habib, Mohamed, si chiamano Kaihan, oppure Esfandyan. Raccontano storie incredibili di violenze dalle quali sono fuggiti e alle quali, piuttosto che riviverle, preferiscono le indecenze, la miseria e le insicurezze che provano qui. Sono solo uomini, giovanissimi, alcuni minorenni, tutti musulmani. Li si vede pregare anche cinque volte al giorno, come i più ortodossi di loro fanno. Per le abluzioni rituali prima di inginocchiarsi verso la Mecca, si arrangiano a farle alla fontanella vicina alla ferrovia.
Già, la ferrovia. A meno di cento metri dalla "Buca degli afgani" corrono i binari della stazione Ostiense, dove altre baracche di cartone, altri tuguri indecenti ospitano etnie diverse dai Pashtun, concentrati tutti nella "buca", il luogo forse ritenuto più comodo da questo gruppo egemone in patria, ed evidentemente anche in esilio. Nei piccoli "quartieri satellite" lungo la ferrovia ci sono gruppetti di Azara, Uzbeki, Tagiki, Turkmeni.

"Sono arrivato in Italia da quattro giorni.... non mi chieda come ho fatto... ma domani salgo sul primo treno che va verso Ventimiglia e me ne vado", dice Faharan, 24 anni, reduce da un'iniezione intramuscolare che s'è fatto fare nel camper di Medici per i diritti umani.
Quello che sta succedendo nella "buca" dell'Ostiense è un pugno nello stomaco nel bel mezzo di un quartiere di una capitale europea. Accettato da molti, che hanno regalato tende e coperte, ma anche appena sopportato da tanti altri del quartiere. Laura Boldrini, portavoce dell'Alto Commissariato per i Rifugiati dell'Onu, commenta: "Non è che il risultato della scelta politica delle pubbliche autorità di non investire di più sulla prima accoglienza, che permetterebbe ai rifugiati di camminare con le proprie gambe, senza rimanere a lungo in stato di dipendenza e di incertezza. Soprattutto senza che si creino situazioni di degrado come queste".
La Boldrini ricorda poi il percorso accidentato delle norme che in Italia regolano il riconoscimento di asilo politico. "La Bossi-Fini nel 2004 introduce il concetto secondo il quale se ad un rifugiato viene negato l'asilo politico, lui se ne deve andare subito, senza aspettare l'esito di un riesame della sua richiesta".

"Concetto, questo, cancellato nel 2006 dal governo Prodi, che riammetteva la possibilità per il richiedente di aspettare in Italia il secondo grado. Nel 2008, infine, con il 'pacchetto sicurezza', si pongono limiti ferrei che, di fatto e con poche eccezioni, non mettono in condizione chi fugge da guerre, violenze, soprusi, negazione di diritti umani o calamità naturali, anche semplicemente di avanzare la richiesta di asilo". (La Repubblica, 8 novembre 2009)

Saturday, November 7, 2009

Veline e donne siliconate (di Alessio Ponz de Leon)

Chi, come me, ha già qualche annetto sulle spalle, senza dubbio si ricorderà cosa si identificava una volta con la parola “velina”. Era una carta finissima, diafana e trasparente, con la quale, da bambini, ci si divertiva a ricalcare immagini e fotografie con la matita. Ne venivano fuori ingenui disegni, copie sbiadite e approssimative dell’immagine originale.

Oggi la parola velina è diventata sinonimo di una ragazzotta sculettante dalle forme avvenenti, che si agita e fa le moine davanti ad una telecamera, con gli occhi sempre rivolti all’obiettivo, nella speranza che qualcuno la noti e le proponga una particina in un film di infima qualità o in qualche inutile programma televisivo.

Ma in fin dei conti, oltre alla circostanza di essere graziose, di indossare adamitici costumini, saper ruotare le braccia, sculettare e fare moine accattivanti, cos’altro sanno fare le veline ? Assolutamente nulla, sono solo copie sbiadite e senza talento di altre donne che lavorano con vera professionalità nel mondo dello spettacolo. Eppure diventare una velina sembra essere diventata, oggi, la più grande aspirazione di tante ragazze ambiziose e, ancor più, di molti genitori.

Una volta c’erano le “soubrettes”, che riempivano con il loro talento e la loro professionalità gli schermi in bianco e nero dei vecchi televisori. Ne ricordo alcune, come Delia Scala, Caterina Valente, Lauretta Masiero, Marisa Del Frate. Erano donne belle, affascinanti, aggraziate e piene di talento. Sapevano ballare, cantare e recitare e non avevano alcun bisogno di mostrare seni e natiche per essere apprezzate dal pubblico. E, soprattutto, non avevano paura della loro età. Accoglievano con rassegnazione e dignità i cambiamenti indotti dal trascorrere inesorabile del tempo e, una volta terminata la loro stagione, si mettevano semplicemente da parte.

Oggi in televisione vediamo donne che, piuttosto che rassegnarsi all’idea che il tempo non si possa fermare, preferiscono assomigliare a zombi usciti dal film “La notte dei morti viventi”; nasini tutti uguali, artefatti e improbabili, simili a quelli dei cadaveri di una sala settoria; tettone gommose che sfidano tutte le leggi fisiche, prima fra tutte quella di gravità; labbroni siliconati, mostruosamente gonfi, come fossero stati punti da uno sciame di calabroni inferociti. Solo l’idea di baciare una di quelle bocche mette i brividi lungo la schiena.

Ma davvero ci sono uomini ai quali piacciono donne del genere ? Ai quali piace baciare un labbrone finto e freddo e toccare un seno di plastica che sembra il Flubber del film di Walt Disney o la trombetta di una macchina d’epoca ? Deve essere indubbiamente così, se sempre più donne, anche giovanissime, si sottopongono a questo massacro.

Mi vengono in mente le parole che Anna Magnani rivolse ad un truccatore il quale, durante le riprese di un film, voleva nasconderle le rughe del viso. Gli disse: “Lasciamele tutte, ci ho messo una vita a farle”. Che donna ragazzi. (Alessio Ponz de Leon per il suo Blog).

Wednesday, November 4, 2009

Ku Klux Klan in Italia, l'ultima follia



Lanciano "un appello" a chiunque, in Italia, voglia difendere "la stirpe bianca", perché "l'uomo bianco non è mai libero di esercitare il proprio potere nelle proprie terre e nazioni". L'ombra del Ku Klux Klan (KKK), che, in America, riunisce xenofobi e razzisti nascosti dietro al tradizionale cappuccio bianco o colorato, si allunga anche sul nostro Paese, dove è stato fondato un "reame d'Italia". Ad animarlo, è il movimento degli "United northern and southern knights of the KKK" (l'acronimo è Unsk), la più importante ramificazione americana del Ku Klux Klan, con il suo quartier generale a Fraser, nel Michigan.

Già nel 2007, il KKK mosse i suoi primi passi in Europa, con il primo "reame ufficiale". Dopo una serie di liti interne al movimento, questo venne sciolto. Fu allora che gli iscritti, prevalentemente italiani e tedeschi, si rivolsero agli United northern and southern knights (costituiti nel 2005 su impulso di un iscritto al KKK), per chiedere di essere ammessi al loro direttivo. "Dopo una breve trattativa - viene spiegato su un forum neonazista italiano, che li celebra - si decise di creare un Klan europeo parallelo e fraterno a quello americano. Questo venne convalidato e ufficialmente riconosciuto nel resto del mondo nell'agosto del 2008". A oggi, oltre alle sedi in 29 stati americani, al reame italiano, ne esiste uno tedesco, uno in Belgio e nel Regno Unito. Anche se, avvisano, "contiamo di espanderci ulteriormente nei prossimi mesi". Il coordinamento europeo è affidato a quello che viene definito "Reich" tedesco. Ogni singolo reame è autonomo, ma risponde al coordinamento europeo, che a sua volta riferisce alla casa-madre nel Michigan. Quest'anno hanno già avuto luogo due "vertici", tra i direttivi europei e quelli americani.

Nella sezione italiana del loro sito, si annuncia "l'apertura delle iscrizioni" e si lancia un appello ad aderire al movimento: "Se siete uomini o donne patrioti bianchi e ritenete di volervi impegnare per la vostra stirpe e per le generazioni future, se ne avete abbastanza di vedere la nostra discendenza, i nostri diritti e il nostro futuro calpestati e gettati via, se volete mettere fine a questo scempio, saremo felici di avervi con noi e di ascoltarvi. Aderisci alla lotta e salva i tuoi diritti quale cittadino bianco e cristiano. Riprendiamoci quello che ci è stato tolto e diamo ai nostri figli il futuro che meritano".

Per aderire bisogna compilare un modulo, allegando foto a colori e copia di un documento: l'accettazione ufficiale arriverà dopo il superamento di un periodo di osservazione di 12 mesi. All'atto dell'iscrizione si riceve il cosiddetto "libretto del periodo di prova".

La filosofia ricalca quella razzista dei "fratelli" americani: lotta e contrasto a "neri, immigrati, omosessuali" ma anche "ebrei", per dar vita ad uno Stato "bianco e cristiano". Agli ebrei, ad esempio, è tassativamente vietata l'iscrizione al movimento, perché ai Klansmen (come vengono definiti gli iscritti), interessano "solo i cristiani bianchi". "Siamo fedeli ai principi del Ku Klux Klan, fondato nel 1865", dicono nella sezione italiana del loro blog, e parlano di una "sacra missione". Una missione che può essere così sintetizzata: "La lotta per la nostra stirpe è esigente e la vittoria può essere raggiunta soltanto con dedizione e lealtà. Il nostro obiettivo è semplice ma forte, conservare il cristiano bianco, i suoi ideali e le sue tradizioni. Siamo qui per guidare i nostri fratelli e le nostre sorelle bianche e ristabilire l'ordine in questa società collassata".

Secondo questi razzisti incappucciati, che si definiscono "nazionalisti fieri di essere italiani", oggi "si parla molto di orgoglio nero, orgoglio ebraico, orgoglio ispanico e addirittura di orgoglio gay", mentre "esiste solo un segmento maggioritario della popolazione che non viene incoraggiato ad essere orgogliosa della propria discendenza e delle conquiste dei suoi avi. Quel gruppo etnico è la razza bianca". E via con una serie di considerazioni sui principi della superiorità della razza, alla base del credo neonazista: "Al fine di poter essere mentalmente sano, un individuo necessita di una chiara identità e consapevolezza del proprio valore e affinché la nostra razza tutta possa essere forte e in salute le genti bianche di ogni dove devono sviluppare un senso di identità e valore razziale. Quindi acquisite orgoglio nella vostra razza".

Come diffondere i principi xenofobi del KKK in Italia? Sono loro stessi a spiegarlo: "Data la natura storica pressoché sconosciuta della nostra associazione, il nostro primo obiettivo è quello di far giungere il nostro vero messaggio ai bravi cittadini italiani. Questo avverrà sotto forma di volantinaggi in luoghi, spazi e modi leciti secondo la legge italiana e tramite web (forum, siti, blog, e-mail)". E, nell'ottica di questa propaganda via web, la sezione americana sta già provvedendo da tempo a inserire su Youtube i video con le loro cerimonie - inclusa quella nel corso della quale si brucia la croce.

Duri attacchi vengono rivolti anche ai gay, "colpevoli" della crisi della nostra società: "L'omosessualità è irresponsabilità senza vergogna. E' inutile negare che da quando è uscita dall'armadio è iniziata la crisi di salute della società. Gli omosessuali aggiungono una difficoltà tremenda al costo della sanità. Rifiutano di essere ragione di questa difficoltà, preferendo protestare per i benefici di governo invece di cambiare il loro comportamento, cioè pagando per i loro peccati".

Il cappuccio bianco che indossano serve a "tutelare il lavoro e la tranquilla vita quotidiana" degli iscritti: "Noi non desideriamo che i nostri membri cadano vittima di persecuzioni, aggressioni o discriminazioni", spiegano, non nascondendo il timore verso "taluni personaggi e associazioni di sinistra" che potrebbero crear loro problemi. Cercando di anticipare quanti chiedono la loro messa al bando, rispondono con una domanda: "Dicono che i Klansmen dovrebbero essere espulsi dai loro posti di lavoro militari, nella polizia, nei vigili del fuoco e da tutte le forme elette di governo. Se un Klansman dovrebbe essere licenziato dal proprio posto di lavoro perché il Klan storicamente uccise dei neri allora non sarebbe forse sensato che anche un nero lo sia poiché essi hanno maggiore attitudine all'uccidersi a vicenda più di quanto ne possa avere un Klansman?".
(La Repubblica, 2 novembre 2009)

Sunday, November 1, 2009

Le centinaia di Ceppaloni che l'Italia non vuol vedere (di Curzio Maltese)


Le telecamere di Mediaset puntate come l'arma di un cecchino sul giudice Mesiano non testimoniano solo l'onestà dell'uomo: uno che si mette in fila e si veste ai grandi magazzini, come di sicuro non fanno i magistrati corrotti con i conti nei paradisi fiscali. Rivelano anche, operazioni come questa, la totale malafede della guerra ai magistrati combattuta da quindici anni sotto le bandiere dell'ideologia. Quello cui abbiamo assistito in Italia è una caccia alle guardie promossa dai ladroni. E mi rifiuto di credere che gli italiani siano tanto stupidi da non averlo capito.
La questione è: perchè continuano a votare i ladri ? Non soltanto i ladri di destra, anche quelli di sinistra. Per la stessa ragione per cui si votavano i ladroni della Prima Repubblica, ben sapendo chi erano e che cosa facevano. Per cinismo e convenienza. Chi votata Craxi a Milano era il primo a ridere delle barzellette sui socialisti arruffoni. Ma intanto i governi del pentapartito davano tutto a tutti, lanciavano messaggi alla borghesia predatrice: finché ci siamo noi, sarete liberi di arrangiarvi come avete sempre fatto. Dopo una stagione lampo di moralismo, si è ricominciato come e peggio di prima. Il berlusconismo garantisce il perdono, il condono, il rinvio all'infinito della lotta al malaffare, alle mafie, all'evasione fiscale. Chi si oppone è un comunista, una toga rossa, uno "stravagante". A milioni di italiani va bene così. Fingono di credere alla favola della persecuzione politica. Si lagnano della casta politica, urlano contro le mazzette, i raccomandati, la vergogna della peggior corruzione del mondo. Sono pronti a linciare quelli che si fanno beccare. Ma fino al giorno prima facevano affari con loro. Non c'era bisogno degli arresti in Lombardia e in Campania per capire che l'Italia è disseminata di centinaia di Ceppaloni dove per trovare un lavoro, un appalto, una consulenza occorre passare dal clan politico locale. Lo sanno, lo sappiamo tutti.
La corruzione è l'origine di tutte le anomalie italiane. Ma se resiste è perchè, al di là delle recite, conviene a troppi. E allora smettiamola di fingere e diciamo apertamente che la corruzione politica non solo non indigna, ma anzi identifica un pezzo d'Italia con la sua classe dirigente. Si voti un referendum per depenalizzare il reato di corruzione dei politici. Sarebbe più onesto e sincero che aspettare l'approvazione della nuova immunità in Parlamento, con i voti della destra e i soliti assenti ingiustificati della sinistra. (Curzio Maltese, il venerdi di Repubblica, 30 ottobre 2009).

Tuesday, October 27, 2009

Il buco della serratura (di Alessio Ponz de Leon)

Immaginate cosa deve provare la moglie di un noto ed importante personaggio pubblico nello scoprire che il proprio irreprensibile marito frequenta un giro di trans. Immaginate cosa deve provare un figlio nell'apprendere, attraverso i quotidiani e le televisioni, che il proprio padre, potente ed autorevole personaggio pubblico, è stato ricattato da due carabinieri che lo hanno colto in flagrante mentre aveva rapporti sessuali con un trans. Immaginate cosa devono provare la moglie e i figli di un carabiniere nell'apprendere che il rispettivo marito e padre gestisce un sordido giro di ricatti con la collaborazione - oltre che di altri carabinieri - di trans, prostitute e spacciatori di droga.

Avvocati, imprenditori, medici, professori universitari, politici, commercialisti, giornalisti, calciatori ed ex piloti di formula uno. E' lungo l'elenco delle categorie di frequentatori abituali di trans e prostitute diramato dalla Procura di Roma. L'ambiente in cui si consumano questi romantici incontri ? Leggiamo la descrizione della giornalista Maria Elena Vincenzi, che ha visitato i luoghi:"..una vita segreta che racconta tutta un'altra realtà, fatta di appartamenti angusti, loculi fatiscenti in cui la televisione col satellite parla portoghese. Odore di fritto, urla da una porta all'altra, lametta e schiuma da barba appoggiate sul lavandino accanto a un reggiseno, spesso enorme."

Meravigliarsi ? Di cosa ? Altri importanti uomini pubblici, sotto lo sguardo incredulo di mogli, figli, genitori, fratelli, amici e comuni cittadini - ma anche con il plauso e l'ammiccamento compiacente di molti altri cittadini - hanno ammesso di avere avuto rapporti sessuali con escort di lusso in ville al mare ed eleganti appartamenti nel centro storico. Meglio ancora se di proprietà dello Stato. Ma quegli italiani che non si scandalizzano più di tanto nell'apprendere queste notizie devono avere dimenticano che si tratta degli stessi uomini pubblici che hanno fatto approvare dal Parlamento leggi speciali contro la prostituzione.

Domanda. Ma da un punto di visto etico, che differenza c'è fra il consumare un rapporto sessuale con un trans, con una prostituta di strada o con una escort di lusso ? E allora perchè Marrazzo si è dimesso e altri non hanno avuto la decenza di farlo ?

Ma tutto ciò è visto con compiacente indulgenza da una buona parte dei nostri connazionali, soprattutto da quelli, sempre più numerosi, che amano tanto guardare le cose dal buco della serratura. Una prova ? Proprio oggi mi è capitato di leggere una ghiotta notizia : il Grande Fratello 10, nella prima puntata del 26 ottobre, ha ottenuto il 30,87% di share, con 6.047.000 spettatori. Ed ha raggiunto picchi di 8 milioni ! Ed io, nella mia sconfinata e disarmante ingenuità, continuo a domandarmi come possa una persona di normale intelligenza, di media cultura e di ragionevole buon gusto (non si pretende poi molto!) provare piacere o interesse a guardare dal buco della serratura quello che fa un gruppo di coatti, di infimo livello culturale ed intellettuale, dentro una casa finta, sotto l'occhio costante di una telecamera. Che Bel Paese dal radioso futuro è il nostro. (Alessio Ponz de Leon, per il suo Blog).

Sunday, October 25, 2009

Un mondo ingiusto (di Noam Chomsky)

La crisi finanziaria colpisce l'occidente, la fame si abbatte sul sud del pianeta. Ma il problema più grave riguarda la democrazia, ridotta a uno show per cittadini spettatori. E' ora di cambiare, scrive Noam Chomsky.

L'11 giugno la New York Reviews of Books ha pubblicato i pareri di alcuni esperti sul tema "Come affrontare la crisi". E' una lettura molto interessante, ma bisogna fare attenzione a quell'articolo determinativo. Per l'occidente "la crisi" è la crisi finanziaria che ha colpito i Paesi ricchi. E' una crisi molto importante, ma anche per i ricchi ed i privilegiati non è certo l'unica, e neanche la più grave. Altri vedono il mondo diversamente. Per esempio, il 26 ottobre 2008 il quotidiano bengalese The New Nation ha scritto: "E' molto significativo che siano stati spesi migliaia di miliardi di dollari per rimettere in sesto i principali istituti finanziari del mondo, mentre i 12,3 miliardi di dollari previsti dall'Onu all'inizio del 2009 per combattere la crisi alimentare ancora non si vedono. L'obiettivo di sradicare la povertà estrema entro la fine del 2015 è sempre meno realistico, non per carenza di risorse ma perchè non c'è un vero interesse per i poveri del mondo". L'articolo prosegue anticipando che la giornata mondiale dell'alimentazione, il 16 ottobre 2009, "porterà pessime notizie sulla situazione dei poveri nel mondo e nient'altro: semplici notizie che non provocheranno nessuna reazione".

I leader occidentali sembrano decisi a confermare questa previsione. L'11 giugno il Financial Times scriveva che "il programma alimentare delle Nazioni Unite sta tagliando le razioni e interrompendo alcuni interventi perchè i Paesi donatori, colpiti dalla crisi economica, hanno ridotto i finanziamenti". I tagli sono stati fatti nel modo peggiore: nel mondo le persone che soffrono la fame sono più di un miliardo (cento milioni si sono aggiunte negli ultimi sei mesi), i prezzi aumentano e le rimesse degli emigranti diminuiscono a causa della crisi in occidente.

Come aveva sospettato The New Nation, le pessime previsioni diffuse dall'Onu non hanno neanche raggiunto la dignità di notizie. Sul New York Times i tagli al programma alimentare hanno avuto un trafiletto a pagina 10. Le Nazioni Unite hanno anche denunciato che un miliardo di persone rischia di morire per le conseguenze della desertificazione. Secondo il giornale nigeriano Thisday, l'obiettivo era sensibilizzare l'opinione pubblica e incoraggiare il rispetto delle convenzioni internazionali sull'ambiente. Ma questo aspetto è stato completamente trascurato dalla stampa statunitense.

Succede di continuo. Basta ricordare che quando sbarcarono nella regione oggi occupata dal Bangladesh, gli invasori britannici rimasero allibiti dalla ricchezza e dallo splendore di un Paese che oggi è il simbolo della miseria. Come testimonia il destino del Bangladesh, la crisi alimentare non è solo il risultato della "mancanza di vero interesse" da parte dei potenti della terra. Adam Smith aveva osservato che all'epoca i "principali artefici" della politica britannica, cioè gli industriali e i mercanti, difendevano a tutti i costi i loro interessi. Non si preoccupavano delle conseguenze per i cittadini inglesi e tanto meno per quelli che erano soggetti "alla selvaggia ingiustizia degli europei", in particolare dell'India conquistata all'impero. Smith si riferiva al sistema mercantilistico, ma la sua osservazione ha un valore più generale ed è uno dei pochi princìpi solidi e duraturi che regolano sia i rapporti internazionali sia gli affari interni dei Paesi. E' anche vero che non si deve generalizzare troppo. Ci sono casi in cui gli interessi dello stato, compresi quelli economici e strategici a lungo termine, hanno la meglio su quelli delle concentrazioni di potere economico che di solito condizionano la politica, come in Iran e a Cuba.

La crisi alimentare è scoppiata ad Haiti all'inizio del 2008. Come il Bangladesh oggi Haiti è un simbolo di miseria e disperazione. E come il Bangladesh, quando arrivarono gli esploratori europei l'isola era ricca di risorse e aveva una popolazione florida e numerosa. In seguito diventò fonte di buona parte della ricchezza della Francia. Senza stare a ripetere tutta la storia, diciamo che l'attuale crisi alimentare di Haiti si può fare risalire direttamente al 1915. L'invasione voluta dal Presidente statunitense Woodrow Wilson fu sanguinosa, brutale e distruttiva. Il parlamento haitiano fu sciolto con le armi perchè rifiutava di approvare la "legge progressista" che avrebbe consentito alle aziende statunitensi di impossessarsi delle terre haitiane. Poi i marines di Wilson organizzarono libere elezioni in cui la legge fu approvata al 99,9% dal 5% della popolazione che potè votare. Tutto questo è passato alla storia come "idealismo wilsoniano".

Più tardi l'Usaid, l'agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, avrebbe creato programmi per trasformare Haiti nella "Taiwan dei Caraibi" in nome del sacro principio del vantaggio relativo: Haiti doveva importare cibo e altre merci dagli Stati Uniti, mentre gli operai, che erano soprattutto donne, dovevano lavorare in condizioni pietose alle catene di montaggio delle industrie americane. Nel 1990 le prime elezioni libere di Haiti misero in pericolo questo programma economico così razionale. La maggioranza povera del Paese entrò per la prima volta nell'arena politica ed elesse il suo candidato, il prete populista Jean-Bertrand Aristide. Washington adottò la procedura che usa sempre in questi casi: cominciò a boicottare il regime. Qualche mese dopo infatti arrivò il colpo di stato militare, e la giunta che prese il potere instaurò un regime di terrore, con l'appoggio di Bush senior e ancor più di Clinton, anche se l'amministrazione statunitense fingeva il contrario. Nel 1994 Clinton decise che la popolazione era intimidita a sufficienza e mandò i suoi soldati a reinstaurare il presidente eletto, ma a condizione che accettasse un duro regime liberista. In particolare, non doveva esserci nessuna forma di protezionismo economico. I coltivatori di riso haitiani erano bravissimi, ma non tanto da competere con le aziende agricole americane, che potevano contare su forti sussidi governativi soprattutto grazie a Reagan, definito da qualcuno l'alto sacerdote del libero scambio nonostante le sue iniziative di protezionismo estremo e di intervento dello stato nell'economia

Quindi non c'è da sorprendersi di quello che successe dopo. Un rapporto dell'Usaid del 1995 avvertiva che la politica commerciale e d'investimento imposta da Washington avrebbe ridotto alla fame i coltivatori di riso locali. Il neoliberismo smantellò quel poco che rimaneva della sovranità economica del Paese e lo fece precipitare nel caos. George W. Bush peggiorò la situazione bloccando gli aiuti internazionali per puro cinismo. A febbraio 2004 i due torturatori storici di Haiti, la Francia e gli Stati Uniti, appoggiarono un colpo di stato militare che costrinse il presidente Aristide all'esilio in Africa. Da allora, Haiti non è più riuscita a provvedere ai suoi bisogni alimentari ed è rimasta in balìa delle fluttuazioni dei prezzi delle derrate, che è stata la causa principale della crisi alimentare del 2008.

Storie simili si sono ripetute in molte parti del mondo. In senso stretto, forse è vero che la crisi alimentare è il risultato del disinteresse dell'occidente: sarebbe bastato poco per evitare gli effetti più gravi. Ma soprattutto è il risultato della totale dedizione ai principì di una politica statale condizionata dalle grandi imprese, come aveva indicato Adam Smith.

Sono tutti problemi che cerchiamo di non vedere, come il fatto che salvare le banche non è esattamente la prima preoccupazione di miliardi di persone che soffrono la fame, anche nel Paese più ricco del mondo. Non ci preoccupiamo neanche di cercare un modo per contenere la crisi, sia finanziaria sia alimentare. Lo suggerisce l'autorevole rapporto del Sipri, l'istituto di ricerche sulla pace di Stoccolma, secondo cui le spese militari sono altissime e in continuo aumento. Gli Stati Uniti spendono quasi quanto il resto del mondo messo insieme, sette volte di più della Cina che è al secondo posto. E' un dato che si commenta da solo.

La distribuzione delle nostre preoccupazioni dimostra che c'è anche un'altra crisi, una crisi culturale: la tendenza a concertrarsi sui vantaggi personali a breve termine è tipica delle nostre istituzioni economiche e del sistema ideologico che le sostiene. Ne sono un esempio gli incentivi creati dai manager per arricchirsi senza preoccuparsi delle conseguenze per gli altri, come il fatto che la gente comune paga involontariamente per salvare le aziende "troppo grandi per fallire". (...).

(Da un articolo di Noam Chomsky pubblicato sul "The Boston Review" - Internazionale, n.816 del 9/15 ottobre 2009. Noam Chomsky è docente di linguistica e filosofia al MIT di Boston. Esponente della sinistra radicale nordamericana è considerato il più brillante intellettuale militante del nostro tempo.)

Tuesday, October 20, 2009

Omofobia, la denuncia dell'Onu

Navi Pillay, alto commissario Onu ai Diritti umani BRUXELLES - "Affossare la legge contro l'omofobia è stato un passo indietro per l'Italia". L'Alto commissario Onu per i diritti umani, Navi Pillay, mette sotto accusa l'Italia. E denuncia le scelte del Parlamento, che non tengono conto delle violenze di cui sono spesso fatti oggetto gli omosessuali: "Per loro è necessaria una piena protezione". Navi Pillay entra a gamba tesa nella già accesa discussione nata dopo la bocciatura della legge che avrebbe introdotto l'aggravante per i reati commessi in danno di persone colpite per il loro orientamento sessuale. "L'omosessualità e gli omosessuali vengono criminalizzati in alcuni Paesi - ha detto il commissario Onu - ma non possiamo ignorare che i gruppi minoritari, e tra loro gli omosessuali, sono soggetti non solo a violenza, ma a discriminazioni in diversi aspetti della loro vita". Secondo Pillay, che era a Bruxelles per l'apertura del nuovo ufficio Onu per i diritti umani nell'Unione europea, è necessaria quindi "una piena protezione" per gli omosessuali.

Navi Pillay aveva già apertamente criticato il governo italiano per le scelte in materia di respingimenti dei migranti. Oggi il commissario per i diritti umani è ritornato sul problema sicurezza in Italia, criticando ancora una volta la circostanza aggravante della clandestinità contestata agli immigrati irregolari che commettano un crimine. "E' una discriminazione. Per gli immigrati irregolari - ha sottolineato Pillay - non ci può essere una sospensione dei diritti umani. Per punire lo stesso reato, dovrebbero esserci le stesse regole per chiunque. Non escludo - ha concluso il commissario - che l'Onu possa chiedere all'Italia di modificare la legge".
(La Repubblica, 14 ottobre 2009)

Libertà di stampa, Italia 49°

ROMA - Reporters sans frontiers ha pubblicato oggi l'annuale rapporto sulla libertà di stampa nel mondo. Secondo la nuova classifica i dati più rilevanti quest'anno sono l'aumento della libertà di stampa negli Stati Uniti dopo l'insediamento di Obama (dal 40esimo posto al 20esimo) e il peggiorare della situazione in paesi come Iran (73esimo) e Israele (150esimo, ma fuori dai territori israeliani). Anche per l'Italia un responso negativo, col nostro Paese che scende dalla 44esima posizione dell'anno scorso alla 49esima. Il Paese che quest'anno si piazza in testa alla classifica è la Danimarca, seguita da Finlandia e Irlanda. Ultimo classificato (su 175 parsi monitorati) l'Eritrea. (La Repubblica, 20 ottobre 2009)

Wednesday, October 14, 2009

La faccia feroce dell'Italia (di Miriam Mafai)

Ieri alla Camera affossata la legge contro l'omofobia. Una buona notizia per chi va a caccia di chi giudica "diverso" in un paese incattivito. Il commento della scrittrice Miriam Mafai.

ECCO una buona notizia per coloro che, in un'Italia che si è fatta sempre più incattivita e feroce, si muovono ogni notte, come cani da caccia, alla ricerca di una vittima da insultare, picchiare, trascinare per terra, sputacchiare, calpestare. Una vittima colpevole di una sua presunta "diversità". Una buona notizia, insomma per quanti hanno imparato e hanno in serbo gli insulti più volgari da buttare in faccia a coloro che, uomini o donne, hanno abitudini e tendenze sessuali diverse da quanti si definiscono "normali".

Questi presunti "normali" si appostano nelle strade frequentate da gay o lesbiche, li aspettano all'uscita dei locali da loro abitualmente frequentati, li inseguono, li insultano, li picchiano, abbandonandoli poi sanguinanti per terra. In questi ultimi giorni è accaduto più di una volta, in molte nostre città. È successo ancora a Roma, nella notte tra lunedì e martedì, in pieno centro, dove due presunti "diversi" sono stati lasciati a terra, sanguinanti, da un gruppo di teppisti "normali".

Ecco dunque per questi presunti "normali" una buona notizia. Alla Camera ieri è stato affossata una legge contro l'omofobia che, prima firmataria Paola Concia del Pd, inseriva tra le aggravanti dei reati, "fatti commessi per finalità inerenti all'orientamento o alla discriminazione sessuale della persona offesa". Era una buona legge. Flavia Perina, del Pdl, me ne aveva parlato recentemente, come di una legge che avrebbe dimostrato la possibilità di operare insieme, maggioranza e opposizione, per affrontare e risolvere problemi condivisi, superando il clima di feroce contrapposizione che caratterizza ormai da tempo la nostra vita politica.

La legge sembrava poter arrivare al traguardo. E invece no. Con un asse tra Udc e quasi tutto il centrodestra, è stata dichiarata l'incostituzionalità delle norme, seppellendo definitivamente il testo di legge. Se e mai un provvedimento contro l'omofobia rivedrà la luce, dovrà essere un disegno di legge nuovo e dovrà ricominciare l'iter dall'inizio. Tempi biblici, dunque.

Non tutta la maggioranza, tuttavia, si è prestata all'affossamento. Nove deputati, cosiddetti "finiani" hanno votato contro il rinvio della legge in Commissione Giustizia. Tra questi Flavia Perina, Italo Bocchino, Benedetto Della Vedova, Chiara Moroni. E altri deputati del Pdl si sono astenuti. Tra questi Giulia Buongiorno, presidente della Commissione Giustiziasi, Elio Vito e Gianfranco Rotondi. Anche l'opposizione, tuttavia, ha dovuto registrare la sua defezione. Ancora una volta l'on. Paola Binetti ha preso le distanze dal gruppo cui appartiene e votando con la maggioranza, ha provocato una dura reazione di Franceschini.

La fine di questa legge rappresenta, lo dicevamo all'inizio, una buona notizia, forse addirittura un incoraggiamento, per coloro che di notte vanno a caccia dei "diversi" in un paese che si va facendo sempre più incattivito, volgare e feroce. Forse la cultura della tolleranza, del rispetto degli altri, una cultura che qualcuno liquida sprezzantemente come "buonismo" è già perdente nel nostro paese. Ma sarà sempre più difficile vivere, convivere in un paese che faccia della "caccia al diverso" uno sport diffuso e vincente. (La Repubblica, 14 ottobre 2009)

Tuesday, October 13, 2009

La rivolta indigena è in tutto il mondo

Dal Perù alla Nigeria, dall'Equador alla West Papua, le popolazioni native si battono per impedire che le multinazionali sfruttino le risorse naturali. Un saggio del giornalista John Vidal sul quotidiano inglese "The Guardian".


E' stata definita la seconda "guerra mondiale del petrolio", ma l'unica cosa in comune tra l'Iraq e quello che è successo nel nord del Perù nelle ultime settimane è la disparità delle forze in campo. Da un lato la polizia peruviana con armi automatiche, gas lacrimogeni, elicotteri da guerra e camionette blindate. Dall'altro alcune migliaia di awajun e wambis con il corpo dipinto, armati di archi, frecce e lance.

All'inizio di giugno gli indigeni hanno scatenato una delle più grandi e violente proteste della storia recente del Perù. Un avvertimento non solo per Lima, ma anche per tutti gli altri governi dell'America Latina : è quello che potrebbe succedere se le aziende dovessero avere libero accesso al petrolio e al legname dell'Amazzonia. Il 5 giugno la polizia ha cercato di rimuovere un blocco stradale dei nativi vicino Bagua Grande. Sono cominciati subito gli scontri che hanno portato, secondo fonti non governative, alla morte di almeno cinquanta indigeni e di nove agenti di polizia. L'Ong Survival International ha parlato di una Tienanmen peruviana. "Gestiamo le foreste dell'Amazzonia da migliaia di anni", spiega Servando Puerta, uno dei leader delle proteste. "Questo è genocidio. Ci stanno uccidendo perchè difediamo la nostra vita, la nostra sovranità, la nostra dignità umana".

Ma il Perù non è l'unico Paese in cui c'è un conflitto tra il Governo e gli indigeni per lo sfruttamento delle risorse naturali. Negli ultimi anni ci sono state proteste in Africa, America Latina, Asia e Nordamerica. Dighe per le centrali idroelettriche, piantagioni per la produzione di biocarburanti, miniere di carbone, rame, oro e bauxite : sono tutte al centro di dispute sulla terra.

In Nigeria un'imponente forza militare continua ad aggredire le comunità che si oppongono alla presenza delle società petrolifere nel delta del Niger. Il delta, che fornisce il 90% delle entrate dall'estero, è sempre stato una regione instabile. Di recente, però, le armi nella regione sono aumentate notevolmente, e la situazione è peggiorata. Negli ultimi mesi sono stati colpiti dei villaggi sospettati di nascondere gruppi di ribelli. Migliaia di persone sono fuggite. Gli attivisti del movimento per l'emancipazione del delta del Niger (Mend) hanno risposto uccidendo dodici soldati e incendiando un complesso della compagnia petrolifera Chevron.

Nel frattempo in West Papuasia, nelle parte ovest della Nuova Guinea, le forze indonesiane che proteggono alcune delle più grandi miniere del mondo sono state accusate di violazioni dei diritti umani. Negli ultimi anni, negli scontri con l'esercito, sono morti centinaia di membri delle tribù indigene.

"E' in corso una violenta offensiva per sfruttare i territori indigeni", spiega Victoria Tauli-Corpus, nativa filippina e presidente del forum permanente delle Nazioni Unite sui temi degli indigeni. "C'è una crisi dei diritti umani. Gli arresti, le uccisioni e gli abusi sono sempre di più. Sta succedendo in Russia, Canada, Filippine, Cambogia, Mongolia, Nigeria, America Latina, Papua Nuova Guinea e Africa. E' in corso una battaglia per le risorse naturali in tutto il mondo. Gran parte delle materie prime - petrolio, gas, legno, minerali - si trova nelle terre occupate da popolazioni indigene". Appoggiate dai governi, le aziende si spingono in profondità in terre finora ignorate perchè considerate improduttive o selvagge. Nei prossimi anni, per rilanciare l'economia globale, i governi e la Banca Mondiale aumenteranno i loro investimenti in importanti progetti infrastrutturali. E questo moltiplicherà i conflitti.

Secondo gli indigeni, l'estrazione mineraria su larga scala è il fenomeno più dannoso. Clare Short, ex segretario britannico allo sviluppo internazionale e ora presidente del gruppo di lavoro sull'estrazione mineraria nelle Filippine, sostiene che da quando Manila ha aperto le porte alle multinazionali dell'estrazione mineraria, dieci anni fa, le comunità indigene sono state distrutte. Nel 2007 Short ha visitato le comunità filippine. Nel suo rapporto ha scritto :"Non ho mai visto nulla di così sistematicamente distruttivo. Gli effetti sull'ambiente e sulla vita della gente sono catastrofici. Si rimuovono le cime delle montagne (considerate sacre dai nativi) e si distruggono le fonti idriche, rendendo impossibile l'agricoltura".

In un rapporto pubblicato all'inizio del 2009, il gruppo commentava: "L'attività mineraria genera o aggrava la corruzione, alimenta i conflitti armati, aumenta la militarizzazione e le violazioni dei diritti umani". (...). (Internazionale, n.802 del 3/9 luglio 2009).

Saturday, October 10, 2009

Quel lavoro nero che ci piace tanto (di Randa Ghazy)

Bisogna dirlo : siamo simpatici noi italiani. Quando ci sono dei problemi cerchiamo di metterci una pezza per tornare a guardare i quiz e le partite alla TV. Ma dopo un po' il caos prende di nuovo il sopravvento, e allora proviamo a tappare i buchi qua e là, ma alla fine ci grattiamo la testa pensando : "Mmh...Forse non era la soluzione migliore".
Pinco Pallino, titolare di un'impresa di pulizie, ha alcuni dipendenti in nero. Sono bravi ragazzi e si danno un gran daffare, ma sono immigrati irregolari. E non sanno come regolarizzarsi, i poveretti. Sbatti a destra, sbatti a sinistra, non c'è soluzione. Da quando esiste il reato di clandestinità, hanno cominciato a camminare in punta di piedi, a guardarsi intorno con circospezione. Come dargli torto ? Non stiamo creando un bel clima attorno a loro. Se appartenessi alla minoranza di un Paese in cui alcuni utenti di Facebook giocano ad affondarti, in cui si approvano le ronde, in cui chi cerca di fuggire dall'inferno è rimandato indietro, in cui nessuno protesta per le aggressioni razziste, anch'io comincerei a guardarmi intorno con circospezione. Non si sa mai chi si può incontrare. Magari persone come quelle che hanno rotto le costole a mio padre. O il motociclista sconosciuto che ha accoltellato l'attore senegalese Mohamed Ba alla fermata dell'autobus. O i tre che sono scesi di casa per picchiare il congolese che aveva osato distribuire volantini.

Ogni tanto in questa specie di giungla, qualcuno fa il gesto di tendere una mano. Dopo una lunga attesa, spunta il miraggio di una regolarizzazione. Però, da buoni opportunisti, diciamo: "Regolarizziamo solo chi ci va. Come colf e badanti. Altrimenti chi si occupa di nonno Pasquale ?". Colf e badanti meritano un'opportunità, muratori, operai e braccianti, che lavorano come disperati, no.

Oggi va così. Lo Stato italiano sa benissimo che migliaia di irregolari cercheranno di improvvisarsi colf e badanti. Che spunteranno dei finti mediatori per fare quattrini alle spalle dei disperati. Che i datori di lavoro falsificheranno le domande, approfittando di gente disposta a lavorare gratis pur di farsi regolarizzare e non vivere più in clandestinità. Ma ecco il colpo di genio : il datore di lavoro che presenta la domanda non deve avere un reddito inferiore a ventimila Euro all'anno. Pinco Pallino mi ha rivelato che ventimila Euro non c'è li ha. Quindi niente regolarizzazione.

La verità e che noi non li vogliamo regolari. Ammettiamolo : il settore informale ci piace tanto. Il lavoro nero è nello spirito italiano, almeno quanto i giochetti su Facebook e gli striscioni razzisti contro i giocatori di colore. Oggi va così.

Navigando su Internet, però, mi sono imbattuta in qualcosa su cui vale la pena di riflettere :"Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l'acqua, molti puzzano perchè tengono lo stesso vestito per molte settimane. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci...Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti fra loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perchè poco attraenti e selvatici ma perchè si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati in strade periferiche. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro Paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o attività criminali". E' così che negli Stati Uniti vedevano gli immigrati italiani all'inizio del novecento.
(Randa Ghazy su Internazionale dell'11-17 settembre 2009. Randa Ghazy è una scrittrice nata a Saronno da genitori egiziani. Vive a Milano.)

Cosa vuol dire libertà di stampa (di Roberto Saviano)

MOLTI si chiederanno come sia possibile che in Italia si manifesti per la libertà di stampa. Da noi non è compromessa come in Cina, a Cuba, in Birmania o in Iran. Ma oggi manifestare o alzare la propria voce in nome della libertà di stampa, vuol dire altro. Libertà di poter fare il proprio lavoro senza essere attaccati sul piano personale, senza un clima di minaccia. E persino senza che ogni opinione venga ridotta a semplice presa di parte, come fossimo in una guerra dove è impossibile ragionare oltre una logica di schieramento. Oggi, chiunque decida di prendere una posizione sa che potrà avere contro non un'opinione opposta, ma una campagna che mira al discredito totale di chi la esprime. E persino coloro che hanno firmato un appello per la libertà di informazione devono mettere in conto che già soltanto questo gesto potrebbe avere ripercussioni. Qualsiasi voce critica sa di potersi aspettare ritorsioni.

Libertà di stampa significa libertà di non avere la vita distrutta, di non dover dare le dimissioni, di non veder da un giorno all'altro troncato un percorso professionale per un atto di parola, come è accaduto a Dino Boffo. Vorrei parlare apertamente con chi, riconoscendosi nel centrodestra, dirà: "Ma che volete? Che cosa vi mettete a sbraitare adesso, quando siete stati voi per primi ad aver trascinato lo scontro politico sul terreno delle faccende private erigendovi a giudici morali? Di cosa vi lamentate se ora vi trovate ripagati con la stessa moneta?". Infatti la questione non è morale. La responsabilità chiesta alle istituzioni non è la stessa che deve avere chi scrive, pone domande, fa il suo mestiere. Non si fanno domande in nome della propria superiorità morale. Si fanno domande in nome del proprio lavoro e della possibilità di interrogare la democrazia.

Un giornalista rappresenta se stesso, un ministro rappresenta la Repubblica. La democrazia funziona nel momento in cui i ruoli di entrambi sono rispettati. Per un giornalista, fare delle domande o formulare delle opinioni non è altro che la sua funzione e il suo diritto. Ma un cittadino che svolge il suo lavoro non può essere esposto al ricatto di vedere trascinata nel fango la propria vita privata. E una persona che pone delle domande, non può essere tacitata e denunciata per averle poste.

Non è sulla scelta di come vive che un politico deve rispondere al proprio Paese. Però quando si hanno dei ruoli istituzionali, si diventa ricattabili, ed è su questo piano, sul piano delle garanzie per le azioni da compiere nel solo interesse dello Stato, che chi riveste una carica pubblica è chiamato a rendere conto della propria vita. In questi anni ho avuto molta solidarietà da persone di centrodestra. Oggi mi chiedo: ma davvero gli elettori di centrodestra possono volere tutto questo? Possono ritenere giusto non solo il rifiuto di rispondere a delle domande, ma l'incriminazione delle domande stesse? Possono sentirsi a proprio agio quando gli attacchi contro i loro avversari prendono le mosse da chi viene mandato a rovistare nella loro sfera privata? Possono non vedere come la lotta fra l'informazione e chi cerca di imbavagliarla, sia impari e scorretta anche sul piano dei rapporti di potere formale? Chi ha votato per l'attuale schieramento di governo considerandolo più vicino ai propri interessi o alle proprie convinzioni, può guardare con indifferenza o approvazione questa valanga che si abbatte sugli stessi meccanismi che rendono una democrazia funzionante? Non sente che si sta perdendo qualcosa? Il paese sta diventando cattivo.

Il nemico è chi ti è a fianco, chi riesce a realizzarsi: qualunque forma di piccola carriera, minimo successo, persino un lavoro stabile, crea invidia. E questo perché quelli che erano diritti sono stati ridotti quasi sempre a privilegi. È di questo, di una realtà così priva di prospettive da generare un clima incarognito di conflittualità che dovremmo chiedere conto: non solo a chi governa ma a tutta la nostra classe politica. Però se qualsiasi voce che disturba la versione ufficiale per cui va tutto bene, non può alzarsi che a proprio rischio e pericolo, che garanzie abbiamo di poter mai affrontare i problemi veri dell'Italia? Il ricatto cui è sottoposto un politico è sempre pericoloso perché il paese avrebbe bisogno di altro, di attenzione su altre questioni urgenti, di altri interventi.

Il peggio della crisi per quel che riguarda i posti di lavoro deve ancora arrivare. In più ci sono aspetti che rendono l'Italia da tempo anomala e più fragile di altre nazioni occidentali democratiche, aspetti che con un simile aumento della povertà e della disoccupazione divengono ancora più rischiosi. Nel 2003 John Kerry, allora candidato alla Casa Bianca, presentò al Congresso americano un documento dal titolo The New War, dove indicava le tre mafie italiane come tre dei cinque elementi che condizionano il libero mercato quantificando in 110 miliardi di dollari all'anno la montagna di danaro che le mafie riciclano in Europa.

L'Italia è il secondo paese al mondo per uomini sotto protezione dopo la Colombia. È il paese europeo che nei soli ultimi tre anni ha avuto circa duecento giornalisti intimiditi e minacciati per i loro articoli. Molti di loro sono finiti sotto scorta. Ed è proprio in nome della libertà di informazione che il nostro Stato li protegge. Condivido il destino di queste persone in gran parte ignote o ignorate dall'opinione pubblica, vivendo la condizione di chi si trova fisicamente minacciato per ciò che ha scritto. E condivido con loro l'esperienza di chi sa quanto siano pericolosi i meccanismi della diffamazione e del ricatto. Il capo del cartello di Calì, il narcos Rodriguez Orejuela, diceva "sei alleato di una persona solo quando la ricatti". Un potere ricattabile e ricattatore, un potere che si serve dell'intimidazione, non può rappresentare una democrazia fondata sullo stato di diritto.

Conosco una tradizione di conservatori che non avrebbero mai accettato una simile deriva dalle regole. In questi anni per me difficili molti elettori di centrodestra, molti elettori conservatori, mi hanno scritto e dato solidarietà. Ho visto nella mia terra l'alleanza di militanti di destra e di sinistra, uniti dal coraggio di voler combattere a viso aperto il potere dei clan. Sotto la bandiera della legalità e del diritto sentita profondamente come un valore condiviso e inalienabile. È con in mente i volti di queste persone e di tante altre che mi hanno testimoniato di riconoscersi in uno Stato fondato su alcuni principi fondamentali, che vi chiedo di nuovo: davvero, voi elettori di centrodestra, volete tutto questo? Questa manifestazione non dovrebbe veramente avere colore politico, e anzi invito ad aderirvi tutti i giornalisti che non si considerano di sinistra ma credono che la libertà di stampa oggi significa sapersi tutelati dal rischio di aggressione personale, condizione che dovrebbe essere garantita a tutti.

Vorrei che ricordassimo sino in fondo qual è il valore della libertà di stampa. Vorrei che tutti coloro che scendono in piazza, lo facessero anche in nome di chi in Italia e nel mondo ha pagato con la vita stessa per ogni cosa che ha scritto e fatto a servizio di un'informazione libera. In nome di Christian Poveda, ucciso di recente in El Salvador per aver diretto un reportage sulle maras, le ferocissime gang centroamericane che fanno da cerniera del grande narcotraffico fra il Sud e il Nord del continente. In nome di Anna Politkovskaja e di Natalia Estemirova, ammazzate in Russia per le loro battaglie di verità sulla Cecenia, e di tutti i giornalisti che rischiano la vita in mondi meno liberi. Loro guardano alla libertà di stampa dell'Occidente come un faro, un esempio, un sogno da conquistare. Facciamo in modo che in Italia quel sogno non sia sporcato. (Roberto Saviano, La Repubblica, 2 ottobre 2009 - Questo articolo è stato pubblicato anche da El Paìs, The Times, Le Figaro, Die Zeit, dallo svedese Expressen e dal portoghese Espresso).