Thursday, November 12, 2009

L'autorità del male (di Giorgio Bocca)


Stefano Cucchi, un giovane romano arrestato dai carabinieri in possesso di una quantità di droga sufficiente per farlo considerare uno spacciatore, è morto durante la detenzione. Di certo aveva sul viso e sul corpo il segno di percosse, di certo si sa che polizia e medici non gli hanno prestato le cure necessarie a salvargli la vita.
Secondo il sottosegretario Carlo Giovanardi, costretto poi a scusarsi, "se l'è voluta", come usa dire, prima rovinandosi la salute, poi violando la legge e infine, presumibilmente, offrendosi per il solo fatto di esistere all'ira e alla violenza degli "agenti dell'ordine", che in lui non potevano non vedere un intollerabile disordine.

Giustificati, a delitto avvenuto, da quanti come Giovanardi pensano di essere uomini d'ordine, per aver risposto a una provocazione. Sul caso sono state scritte pagine e pagine di moralità, di doglianze per la mancanza di pietà e di carità, e sull'oscurità che sempre circonda questi rapporti fra le forze dell'ordine e i cittadini. Ma vediamo di parlare del caso Cucchi da un punto di vista sociologico. Un cittadino come Stefano Cucchi rappresenta un pericolo per l'ordine sociale? E perché? Perché si droga e spaccia droga? Sì, ma perché lo fa con la decisiva aggravante di essere un poveraccio, visibilmente ammalato, menomato, tanto che non si sa bene se parte delle ferite visibili sul suo corpo se le sia procurate "cadendo dalle scale".

La vera colpa di Stefano Cucchi è di essere un ammalato, un rottame umano che vaga per la grande città. Nella stessa città una moltitudine di cittadini rispettosi dell'ordine e con posti di alta responsabilità sociale si drogano ma non spacciano, non cadono per le scale, non oppongono resistenza ai poliziotti.

Normalmente diresti che la differenza è inesistente, che tutti violano il dovere di essere socialmente responsabili, socialmente capaci di intendere e di volere, ma socialmente le cose stanno in modo radicalmente diverso: i cittadini non sono uguali davanti alla legge come dicono le costituzioni, la società si divide fra i ricchi di denaro e di conoscenze, cui è lecito truffare il prossimo con la finanza, con l'industria, con informazione, con la medicina, e con quasi tutte le umane professioni, e quelli che per truffe minori e moralmente tollerabili come il furto per fame, vengono lapidati come Cucchi.

Il dilemma sociale vero, quello che può decidere sulla libertà o sulla servitù della società futura è questo: democrazia autoritaria a favore dei ricchi e sapienti e a spese dei poveri e ignoranti, o democrazia dei diritti e dei doveri garantita dalle leggi? Il caso può fornire dei suggerimenti. In pratica come era possibile risolverlo evitando il tragico epilogo? I poliziotti che lo conoscevano potevano fare a meno di arrestarlo per la detenzione di una piccola quantità di droga proprio nei giorni in cui su tutti i giornali si legge che fanno uso di droga parecchi delegati del popolo al governo della nazione. Comportarsi insomma come con l'immigrazione irregolare delle badanti e degli operai, su cui si sono chiusi entrambi gli occhi perché faceva comodo sia al nostro benessere che alla nostra economia. Ma come non vedere che alla base di questi compromessi, di queste eccezioni alla severità e al rigore c'è una crescente pressione della parte povera e diseredata? E che questa crescente pressione potrebbe tradursi negli anni a venire, prima nella democrazia autoritaria già in corso e tacitamente approvata dalla maggioranza benestante del paese, e poi nella semplificazione feroce delle dittature nelle quali i poveri e riottosi venivano lasciati o fatti morire?

Come non vedere che a due decenni dalla caduta del muro di Berlino si profilano altri muri di separazioni coercitive? Il banchiere Cuccia era solito dire che le azioni della società "non si misurano a numeri, ma a peso". Ed è così, e di quasi tutto ciò che conta nella nostra vita: denaro come giustizia, salute, bellezza, libertà. La soluzione autoritaria e magari schiavista è la più semplice, la più risolutiva in apparenza. Simile alla celebre frase di Tacito: "E dove fanno il deserto lo chiamano pace". La dittatura nessuno la auspica e la vuole, a parole, ma in molti la preparano, giorno per giorno, approvando, spalleggiando ogni giorno ciò che svuota la democrazia, aggiungendovi ogni giorno qualcosa che la limita. Il passaggio dall'autoritarismo al terrore si annuncia in modi disparati, apparentemente disparati. Oggi è il drogato ucciso a percosse, domani il barbone bruciato vivo, la donna con le mani tagliate, che sembrano non lasciare traccia. Ma la lasciano, lasciano l'ostilità alle leggi, l'avversione ai diritti umani, l'ignoranza dei doveri. Per definire il colonialismo Mussolini diceva che era il nostro "mal d'Africa". Ma quanti sono in Italia quelli che ancora soffrono del "male autoritario"?  (La Repubblica, 12 novembre 2009)

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